Juan Goytisolo |
La vita postuma del Mostro del Sentier
Sembrava proprio che Telón de boca, pubblicato in Spagna nel 2003 e tradotto
in italiano sei anni più tardi (Oltre il sipario, L’Ancora del Mediterraneo),
fosse l’ultimo romanzo di Juan Goitysolo (Barcellona 1931), che condivide con Juan
Benet l’onore e l’onere di essere lo scrittore spagnolo del secondo novecento più
interessante, eterodosso e indifferente alle lusinghe del mercato. Era stato l’autore
stesso a dichiarare che con quel testo sulla memoria, il lutto e l’orrore dell’oblio
avrebbe concluso la sua lunga traiettoria di narratore, iniziata nel 1954 con Juegos
de manos, primo di una serie di romanzi e racconti saldamente ancorati al “realismo
sociale” che si era assunto il compito di rappresentare la Spagna della posguerra,
e dal quale Goytisolo si allontanerà in maniera radicale nella seconda metà degli
anni sessanta per approdare a una proposta narrativa del tutto nuova, in cui predominano
il frammento, la contaminazione, la pluralità di voci, l’intertestualità, e, a tratti,
una punteggiatura “ribelle”, minima e irregolare, unita all’abolizione delle maiuscole.
Ma a volte, per fortuna, gli scrittori contraddicono se stessi, e quindi ecco
apparire nel 2008 El exiliado de aquí y allá, prosecuzione ideale di quel
Paisajes después de la batalla (Paesaggi dopo la battaglia, Cargo
2009; la prima edizione in lingua originale è del 1982) che Goytisolo ha ambientato
nel quartiere parigino del Sentier dove ha trascorso molti anni insieme alla moglie
Monique Lange, dopo aver lasciato nel ’56 la Spagna franchista e le sue mille censure,
e prima di trasferirsi in quella che è ormai la sua residenza definitiva, Marrakech.
Dopo una serie di traversie editoriali che ne hanno ritardato la pubblicazione,
ecco finalmente nelle nostre librerie, a cura di Massimo Rizzante, questo breve,
ammaliante e grottesco Esiliato di qua e di là. La vita postuma del Mostro del
Sentier (Mimesis, pag. 128, e. 12), nella traduzione davvero eccellente di Ferdinando
Guadalupi, che si è misurato nel modo migliore con la scrittura di un grande prosatore
la cui patria è – come per Carlos Fuentes – la propria lingua.
I lettori potranno dunque incontrare ancora una volta il Mostro del Sentier
– personaggio turpe e misantropo sotto la cui abiezione si nasconde una sorta di
folle santità –, che in Paesaggi dopo la battaglia si perdeva tra identità
multiple, fantasie oscene e universi immaginari, oppure si aggirava per un quartiere
proletario e multietnico dove l’immigrazione, il razzismo, la complicata convivenza
tra culture diverse stavano per produrre un’onda anomala di proporzioni sconosciute.
Solo che, ridotto in poltiglia nell’ultima pagina del romanzo da un attentato del
gruppo terrorista “Froci Rossi”, stavolta il Mostro riappare in veste di defunto,
quasi un revenant sospeso tra l’Aldiquà, oltretomba virtuale cui si può accedere
via e-mail, e l’Aldilà, ovvero il mondo dei vivi: la rete è la strada maestra che
permette al protagonista di tornare nelle strade del Sentier, per tentare di capire
la propria morte e trasformarsi in un terrorista agli ordini della misteriosa Alicia,
imam dalla folta barba che si cela sotto la procace apparenza di una diva del porno,
e che insieme a un rabbino rasta e a un monsignore pedofilo usa riunirsi con i rappresentanti
dei diversi governi per pianificare lucrosi attentati e progettarne la copertura
mediatica.
Il mondo in cui il Mostro si avventura con incauta perplessità è molto cambiato:
la gente del Sentier (e, se è per questo, di ogni altro luogo) è ormai al di là
dell’insofferenza o della rivolta di strada, e tesse o subisce le trame di un terrore
quotidiano e globale, divenuto merce e come tale consumato, mentre a tirare i fili
provvedono le tre onnipotenti religioni monoteiste, fintamente nemiche e sostanzialmente
alleate, in combutta con il populismo truffaldino o con le dittature appena dissimulate
che sembrano rappresentare l’unica forma di “democrazia” possibile. E alla fine
il Nostro, terrorista incapace ed erotomane fallito in speranzosa e inutile attesa
che gli USA sgancino una Bomba Gay a base di ferormoni, deciderà di accettare l’evanescente
condizione di defunto goffo e sperduto, sopraffatto dall’inutilità dei propri tentativi
e “dallo scontro con le assurdità che lo circondano”.
Già evidentissimo nelle opere precedenti e soprattutto nel profetico e sbalorditivo
Paesaggi dopo la battaglia, che disegnava con anticipo ventennale l’esplosione
delle banlieues francesi, il pessimismo di Goitysolo è più estremo che mai e non
offre soluzioni impossibili, ma ci mette di fronte a una perfida parodia in cui
“tutto è inverosimile e allo stesso tempo crudelmente vero”: uno specchio che riflette
un’immagine grottesca, deforme e irresistibilmente comica, costringendoci a una
presa d’atto, a una visione irredimibile del disastro presente e futuro. Costruito
in forma di capitoli brevi e frammentari, che spesso danno voce a personaggi diversi
e utilizzano differenti linguaggi (da quello pubblicitario, giornalistico o burocratico,
agli slogan dei terroristi e alle chiacchiere delle vicine), L’esiliato di qua
e di là è un testo sottilmente disseminato di rimandi e allusioni metaletterarie,
in cui spazio e tempo non obbediscono alle leggi consuete e corpi mutanti si sottraggono
alla fisica e alla biologia; ed è anche – all’opposto di Paesaggi dopo la battaglia,
ambientato in una Parigi ben riconoscibile – un romanzo in cui il paesaggio urbano
si dissolve, la città svanisce e diviene un luogo puramente virtuale, al quale ci
si affaccia dallo schermo del computer.
A sorreggere il tutto, dietro all’ironia feroce, alla sempre rinnovata ricerca
formale e alle sulfuree provocazioni, la profonda convinzione dell’autore che “la
letteratura oggi non può essere né nazionale né europea”, ma deve necessariamente
ritrovare antiche radici comuni, capaci di nutrire un meticciato che includa quanto,
nel corso di una secolare e ostinata costruzione dell’Altro, ci si è sforzati di
escludere (è illuminante, in proposito, il dialogo con Massimo Rizzante che conclude
il volume, in cui Goytisolo illustra tra l’altro le sue posizioni sul rapporto tra
islam e occidente e sulle reciproche influenze tra le due culture). Ma, soprattutto,
in ogni pagina si legge la certezza che, alle prese con un mondo in cui “tutto si
vende e si compra come a un’asta tra imbroglioni ludodipendenti” e l’intimità più
volgare invade la sfera pubblica, lo scrittore non può che “radicalizzare il suo
gesto, ritornare ancora una volta alle origini”.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2014