Josefina Vicens |
Il segreto del vuoto
Per molto tempo Josefina Vicens (1911-1988) è stata uno dei segreti meglio custoditi
della letteratura messicana: autrice come Juan Rulfo di due soli memorabili romanzi
e come lui nata in provincia, venne apprezzata da una ristretta cerchia di intellettuali
ma per il grande pubblico e per buona parte della critica rimase una sconosciuta,
tanto che i suoi libri sono stati per anni introvabili, finché la casa editrice
Fondo de Cultura Económica li ha riproposti nel 2006 in un unico volume.
Dopo tanta indifferenza, tuttavia, oggi l’esigua opera della Vicens è entrata nel
canone dei classici ed è oggetto di studi sempre più assidui, oltre a riscuotere
l’interesse dei giovani scrittori messicani e latinoamericani, alcuni dei quali
la considerano un punto di riferimento e la citano tra i maestri cui si riconoscono
debitori.
Tradotti in Francia già nel 1963 e più tardi negli Stati Uniti, i romanzi di
Josefina Vicens sono da non molto disponibili anche in italiano, visto che a vent’anni
dalla morte dell’autrice il piccolo editore sardo Angelica ha pubblicato Los
años falsos (Gli anni falsi, 2008), uscito in Messico nel 1981, e che
è da poco in libreria El libro vacío (Il libro vuoto, Editori Internazionali
Riuniti, pag. 175), proposto nel 1958 da uno dei migliori editori del tempo, l’esiliato
spagnolo Rafael Jiménez Siles, e ora tradotto da Roberta Arrigoni che, nella sua
acuta postfazione, fa un’intelligente analisi di un testo divenuto leggendario almeno
quanto la personalità dell’autrice.
Nel Messico degli anni ’50, una presenza come quella della Vicens appariva senz’altro
inusuale: una figuretta androgina in panni maschili, che non si curava di nascondere
le relazioni amorose con note attrici dell’epoca, come Anita Blanch o Raquel Olmedo.
Ma, al di là delle apparenze mascoline, furono le sue scelte a renderla un personaggio
fuori contesto in un paese dove l’indiscusso modello femminile era quello della
moglie-madre disposta all’umiliazione e pronta al sacrificio; sostenitrice del suffragio
femminile, sindacalista di primo piano, combattiva notista politica e cronista della
tauromachia, donna indipendente e solitaria che era entrata nel mondo del lavoro
a quattordici anni, Josefina Vicens aveva scelto di sottrarsi radicalmente all’universo
chiuso, domestico e sottomesso al quale le convenzioni, la scarsa istruzione e il
corpo in cui era nata sembravano destinarla.
Il fatto che al centro dei suoi romanzi ci siano due uomini (l’impiegatuccio
José Garcia in Il libro vuoto e il rampollo delle classi alte Luis Alfonso
Fernandez in Gli anni falsi), che parlano di sé in prima persona, rivelando
la propria sostanziale incapacità di affrontare la vita e il rapporto con gli altri
e con sé stessi, hanno indotto alcuni critici a parlare di travestitismo letterario,
e gli altri a suggerire che avrebbe utilizzato la voce dei suoi protagonisti solo
per colonizzarla e irrompere con forza nel discorso letterario maschile, irridendolo
sottilmente.
Entrambe le suggestioni sono però troppo facili, e ha ragione piuttosto Fabienne
Bradu quando sostiene che Il libro vuoto è profondamente flaubertiano: come
il creatore di Madame Bovary, anche la Vicens poteva affermare José Garcia sono
io perché, come ribadì spesso in articoli e interviste, a lui aveva attribuito il
suo problema, ossia l’impossibilità e al tempo stesso la disperata necessità della
scrittura. Il tema di Il libro vuoto, testo singolarmente scabro e asciutto
che sembra riflettere su sé stesso, elaborato in otto anni di lavoro e limato con
estenuante acribia fino all’ultima prova di stampa, è proprio questo: l’inferno
bianco della pagina da riempire, intollerabilmente deserta e perciò destinata a
farsi carcere e gabbia per chi si misura con essa.
Sin dalle prime righe José Garcia ci dice di essersi procurato due quaderni,
uno nel quale raccogliere appunti e spunti per il suo libro futuro, l’altro pronto
a ospitare il testo ormai levigato e rifinito che permetterà al protagonista di
trovarsi e riconoscersi, ossia di esistere davvero al di là del lavoro squallido,
delle ristrettezze economiche, dei figli quasi estranei, del legame con una moglie
rassegnata e dei sensi di colpa per uno svogliato adulterio. Ma solo uno dei quaderni,
quello degli appunti, verrà riempito dal disordinato flusso di coscienza cui Garcia
ricorre per raccontare una vita irrilevante e soprattutto per scrivere del proprio
non scrivere, mentre sul secondo quaderno non verrà tracciata una sola riga, nell’inutile
attesa di una frase di attacco forte, esatta, incisiva, che se ne trascini dietro
una seconda e una terza. E alla fine José, scrittore senza letteratura, si ritroverà
ad aver scritto un non-libro, un antiromanzo fondato sull’impotenza che sperimenta
ogni sera, quando tenta invano di trasferire qualche parola dal quaderno pieno a
quello vuoto, che è invece il vero libro, l’autentico romanzo, in cui l’ordine perfetto
della pagina bianca resta aperto a ogni possibilità, mentre il silenzio e il desiderio
si inseguono all’infinito. Ma, come nota Roberta Arrigoni a chiusura dell’ottima
postfazione, non c’è troppo da compatirlo, perché la sua sorte non è in fin dei
conti peggiore di coloro che verranno dopo di lui, e che Péter Esterhazy descrive
così: [Lo scrittore postmoderno] è silenzioso, tiene la bocca chiusa, nel migliore
dei casi se ne sta seduto a trafficare ed è già contento se riesce a descrivere
il foglio di carta sul quale sta scrivendo.
Questo articolo è stato pubblicato su Alfabeta nel giugno 2014