Ramiro Pinilla |
Ramiro Pinilla, o della perseveranza
Il nome di Ramiro Pinilla, morto il 23 ottobre a novantuno anni, non è
familiare ai lettori italiani, a meno che non abbiano letto nel lontano 1962 l’unico
suo testo tradotto nel nostro paese, Formiche cieche. E tuttavia vale la
pena di ricordare la sua esistenza e la sua opera anche a quanti non lo hanno
mai sentito nominare, perché Pinilla non è stato solo l’autore di romanzi
memorabili, paragonato in patria a Faulkner e a García Márquez, ma anche un
uomo dalla storia insolita, capace di compiere scelte tenacemente diverse da
quelle della compagnia di giro che oggi vediamo promuovere fino allo sfinimento
i propri prodotti, rimbalzando da una Fiera del libro a Twitter, da un festival
a un reading.
Pinilla, basco di famiglia spagnola immigrata a Bilbao (quindi un maketo,
secondo la definizione spregiativa usata dai baschi “puri”), era un
autodidatta, prima macchinista sulle navi mercantili, poi impiegato nell’azienda
comunale del gas, quindi confezionatore di testi per una casa editrice
specializzata in figurine e autore di biografie scritte su commissione, ma
anche scrittore clandestino che riempiva fogli su fogli con una vecchia
stilografica, approfittando dei momenti rubati alla famiglia e alle fatiche
delle sopravvivenza. Solo nel 1960 questo lavoro silenzioso ha dato i suoi
frutti, con l’assegnazione del premio Nadal al suo romanzo Las ciegas
hormigas, subito pubblicato dalla Editorial Destino e accolto con grande
favore dalla critica: un libro duro, denso, dalla scrittura trasparente e
netta, in cui lo scrittore ha gettato le basi di un cosmo paesano allo stesso
tempo reale e fittizio, quello di Getxo, la cittadina sulle coste del golfo di
Biscaglia dove ha trascorso quasi tutta la vita e ambientato l’intera sua
opera.
Il rapporto con un’industria editoriale pronta a mangiarsi in un boccone un
outsider provinciale e dignitosamente ingenuo, però, è stato particolarmente
infelice: orgoglioso quanto incapace di adattarsi alle ragioni del marketing e
alle leggi moderatamente feroci del mundillo letterario, Pinilla ha
optato quasi subito per una volontaria esclusione (“pubblicare sì, ma non a
qualsiasi costo e tradendo se stesso”, racconterà molti anni dopo), ritirandosi
in una piccola casa circondata da un grande orto, chiamata Walden in omaggio al
suo libro prediletto, Walden ovvero vita nei boschi di Thoreau. Là,
rimasto solo con tre bambini, li ha cresciuti “come una madre” e con immensa
gioia, inventandosi un giornale locale poi distrutto dalle bombe incendiarie
dell’ETA, allevando polli e vendendo uova, e infine creando una sorta di
laboratorio, El taller: non una scuola di scrittura, ma un semplice
luogo di condivisione e di ascolto. A Walden, inoltre, Pinilla ha continuato a
vivere la sua “altra vita”, scrivendo e autopubblicandosi attraverso
Libropueblo, micro casa editrice fondata con un amico e fallita dopo qualche
anno, che vendeva a prezzo di costo libri distribuiti solo nella provincia di
Bilbao (molto spesso erano gli editori stessi a venderli nei mercatini),
comperati da pochi e letti da pochissimi.
Più solitario che mai, senza avere un editore né una prospettiva di
pubblicazione, Pinilla ha impiegato vent’anni per completare quello che Ricardo
Senabre ha definito “l’impresa narrativa più considerevole sorta tra noi negli
ultimi decenni… Un romanzo fondamentale”, e cioè Verdes valles, collinas
rojas, una trilogia di duemilacinquecento pagine abitata da oltre cinquanta
personaggi, che, intrecciando le vicende di due famiglie di Getxo dalla fine
del diciannovesimo secolo sino all’epoca della guerra civile, disegna la storia
dell’intero paese basco e delle sue contraddizioni. Tre romanzi il cui solido
realismo si fonda sulla vocazione libertaria e sull’interesse per le questioni
sociali dell’autore, sulla sua visione critica del nazionalismo, sul suo culto
per la memoria, componendo un mosaico complicato eppure leggibile, fatto di
migliaia di piccoli pezzi, ognuno dei quali è un piccolo romanzo a sé.
Proposta dallo scrittore basco Fernando Aramburu all’editore Tusquets (il
cui editor Juan Cerezo ha saputo stabilire un rapporto rispettoso e cordiale
con Pinilla), la trilogia è stata pubblicata dieci anni fa, quando l’autore
aveva superato gli ottanta, ed è immediatamente diventata un caso letterario,
vincendo il Premio Nacional de Narrativa e raggiungendo migliaia di lettori,
mentre critica e pubblico scoprivano l’esistenza di uno scrittore straordinario
cui si doveva uno dei migliori romanzi spagnoli del nuovo secolo. Da allora,
tutta l’opera di Pinilla viene ripubblicata da Tusquets, insieme a titoli nuovi
e spesso notevoli, come La higuera, che ha preceduto i più recenti
divertissement polizieschi (una trilogia il cui protagonista è un eccentrico
libraio detective) ispirati da una intensa frequentazione del cinema e della
letteratura gialla. All’ultimo romanzo, quello per il quale stava ancora
cercando il finale giusto, lo scrittore ha continuato a pensare anche durante
il suo ricovero in ospedale: perché Pinilla non ha mai smesso di scrivere, fino
all’ ultimo giorno, e chissà che per i lettori italiani non sia arrivato il
momento di conoscerlo e, finalmente, di leggerlo.
Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il manifesto nell’ottobre
2014