Roberto Arlt |
La luna rossa di Roberto Arlt
Nel 1991 il supplemento letterario del quotidiano Pagina/12 pubblicò un testo
di Ricardo Piglia intitolato Arlt: un cadaver sobre la ciudad (oggi lo si
può leggere nella raccolta Formas breves, edita nel 2000 da Anagrama), in
cui si raccontava del funerale di Robert Arlt: dopo la veglia funebre la bara, troppo
grande per passare dalla porta, venne calata dalla finestra della casa e rimase
sospesa sul panorama di Buenos Aires, città dove lo scrittore era nato a metà del
1900. Una storia davvero suggestiva, ma probabilmente falsa – lo sottolinea Sylvia
Saitta, autrice di El escritor en el bosque de ladrillos. Una biografía de Roberto
Arlt –, nonostante Piglia affermi che a svelargliela erano state certe foto
viste insieme a Juan Carlos Martini, come lui animatore, negli anni ’80, di una
fugace rivista letteraria chiamata El traje del fantasma (titolo, guarda
caso, tratto da un racconto arltiano). Pare che la veglia, in realtà, si fosse tenuta
a pianterreno del Circolo della Stampa, per non parlare del fatto che l’episodio
ricorda in modo sospetto quello, analogo e autentico, accaduto nel 1964 a Montevideo,
quando l’enorme feretro di Felisberto Hernández – altro indomabile scrittore eccentrico
– planò lentamente in strada grazie a corde e carrucole.
Quell’estremo e forse mai avvenuto librarsi sopra Buenos Aires, però, ha consentito
a Piglia di commentare che la bara sospesa nell’aria “è una buona immagine del posto
di Arlt nella letteratura argentina. È morto a quarantadue anni e sarà sempre giovane
e continueremo sempre a far uscire il suo cadavere dalla finestra. Il rischio più
grande che corre oggi la sua opera è quello della canonizzazione. Finora il suo
stile lo ha salvato dal finire in un museo: è difficile neutralizzare una scrittura
che si oppone frontalmente alla norma di ipercorrettezza che definisce lo stile
medio della nostra letteratura”. E in effetti nessuno è più estraneo di lui a quel
peccato mortale che Piglia chiama con lapidaria efficacia “stile medio”, tanto che
la irruzione perturbante e innovatrice di Arlt nella letteratura argentina, alla
cui tradizione fu in fondo estraneo, può essere paragonata solo a quella di Manuel
Puig, autore da lui diversissimo, ma con il quale condivide la capacità di essere
vistosamente in anticipo sul proprio tempo.
Non sono mancate, per fortuna, le versioni italiane dell’opera di Roberto Arlt,
anche se Il giocattolo rabbioso (1926), I lanciafiamme (1929) e I
sette pazzi (1931) sono arrivati da noi solo negli anni ’70, e se abbiamo dovuto
aspettare il 2013 per leggere L’amore stregone (1932), l’ultimo dei suoi
quattro romanzi; la stessa sia pur discontinua attenzione non è toccata ai cinque
volumi di racconti usciti fra il 1933 e il 1940 (in passato, solo due brevi raccolte
ce ne hanno proposto una scelta), e nemmeno alle celebri Aguafuertes Porteñas
dedicate a Buenos Aires e ai suoi abitanti: migliaia di testi brevi apparsi
ogni giorno sul quotidiano El Mundo a partire dal 1928, che assicurarono
al loro autore una considerevole popolarità.
Oggi la lacuna viene in parte colmata dalla prima traduzione italiana delle
Acqueforti di Buenos Aires, a cura di Marino Magliani e Alberto Prunetti
(Del Vecchio editore, pag. 304, e. 15), che ne hanno selezionato, tradotto e annotato
una settantina, e da Scrittore fallito (Edizioni Sur, pag. 231, e. 15), un’antologia
di racconti scelti e tradotti da Raul Schenardi, che ha privilegiato gli inediti
e ha attinto in modo particolare alla raccolta “africana” El criador de gorila
(quindici racconti esotici, fantastici e avventurosi pubblicati per la prima volta
nel 1941), superando brillantemente i non pochi ostacoli posti dal lessico e dalla
sintassi di Arlt. E appare ovvio, per chi già conosca l’autore, che i due libri
vadano letti in parallelo, perché temi, personaggi, ossessioni, ambienti, visioni,
incubi, suggestioni e polemiche rimbalzano continuamente da un testo all’altro,
tendendo fili evidenti tra l’autore di racconti e la “firma” di El Mundo (lo
stesso Arlt, del resto, in una Aguafuerte del 1929 dedicata alla professione
che gli dava da vivere e che gli permise di viaggiare come inviato in Cile, Brasile,
Uruguay, Africa e Spagna, dichiara: “Per essere un bravo giornalista bisogna essere
un bravo scrittore”).
Va detto che per molto tempo le Acqueforti, raccolte in volume già nel 1933,
sono state considerate una produzione minore e non strettamente letteraria, materiale
deperibile nato per essere rapidamente consumato da operai, impiegati e casalinghe
che prediligevano il formato tabloid, le prime pagine vistose e il taglio semplice
di El Mundo, giornale creato alla fine degli anni ’20 in una nazione che
ancora beneficiava di una crescita economica straordinaria e dell’ingresso nella
vita politica di una classe media e di un proletariato nati da un gigantesco melting
pot, del quale anche Arlt era figlio (suo padre era prussiano, sua madre triestina).
A questo pubblico abbastanza alfabetizzato da poter accedere alla vasta offerta
di una industria editoriale in piena espansione, Arlt si rivolgeva direttamente
e in prima persona, stabilendo con esso un dialogo costante e senza nascondersi
dietro una oggettività per lui impossibile. Ruvido, sarcastico, curioso, trasformava
i suoi lunghi vagabondaggi per Buenos Aires in istantanee del paesaggio urbano,
in ritratti ironici dei difetti cittadini, in visioni del futuro, in minimi ma succosi
excursus filologici sulle radici del lunfardo – derivato in buona parte dai
dialetti italiani –, in rapide incursioni nel mondo dell’arte e delle lettere, in
una satira aggressiva dell’ipocrisia e del culto collettivo per l’apparenza, e soprattutto
nella denuncia della corruzione politica e dei problemi di una metropoli in turbolento
sviluppo, conferendo alle Acqueforti una dimensione politica più o meno esplicita,
ma sempre presente, anche se Arlt è incline più a un furore individuale che all’adesione
a una qualsiasi ideologia (la sua vicinanza ai letterati marxisti del Gruppo di
Boedo fu, in effetti, intermittente e occasionale).
Anche travasata nel “mezzo” giornalistico, la sua scrittura rimaneva profondamente
narrativa, legata a un discorso letterario del tutto peculiare, in cui avevano fatto
irruzione la lingua parlata e il gergo dei bassifondi. Una lingua spezzata e originale,
inquieta e ribollente, estranea alla raffinatezza europeizzante dei circoli letterari
argentini, così come erano loro estranei i materiali cui Arlt si rifaceva: il romanzo
e il teatro popolari, il melodramma, la cronaca nera, il cinema, la stampa “a sensazione”,
le enciclopedie a dispense, l’esotismo dei resoconti di viaggio. Da questo magma
affiorano costanti che vanno oltre lo sguardo attento di un antropologo urbano,
oltre l’indignazione delle risentite Acqueforti, e rimandano al narratore e all’autore
di teatro, sottolineando come tutta la sua opera sia un provocatorio continuum di
temi, linguaggi, scelte stilistiche (per esempio quella della frammentazione, che
spezza i capitoli dei romanzi in sequenze brevi e provviste di titolo, quasi delle
Aguafuertes incatenate), argomenti e personaggi.
La lettura di Scrittore fallito evidenzia in modo particolare la contiguità
tra l’Arlt giornalista e l’Arlt scrittore, a cominciare dal racconto che dà il nome
alla raccolta (una sfrenata parodia dei letterati che “scrivono bene”, si inventano
avanguardie senza peso né sostanza e sono letti solo da rispettabili parenti) e
che potrebbe corrispondere idealmente all’Acquaforte L’inutilità dei libri,
in cui la figura dello scrittore tradizionale, così come la tradizionale e stereotipata
immagine della letteratura che distribuisce risposte e verità, vengono attaccate
e demolite. Ed ecco tornare, nel racconto Eugenio Delmonte e i 1300 fidanzati,
il rabbioso ritratto delle donne (e delle loro terribili madri) che vedono nel matrimonio
una “sistemazione”: nelle Acqueforti se ne incontrano a dozzine, rappresentate con
lo stesso rancore che ha guadagnato ad Arlt la fama di misogino, forse non del tutto
meritata, perché alle popolane che lavorano duramente, oppresse da uomini fannulloni
o violenti, viene riservata un’intensa compassione, quasi che attraverso la figura
della accalappiatrice lo scrittore volesse criticare non tanto le donne, tutte le
donne, quanto la loro condanna sociale a trovare nel matrimonio un’identità e una
risorsa economica.
Ma ad accomunare racconti e Acqueforti è soprattutto la visione della città:
una Buenos Aires dove tutto cambia da un giorno all’altro, fatta di sterminate periferie
abitate da un vero e proprio “popolo degli abissi” che ha come unico codice di comportamento
quello della lotta per la sopravvivenza, e pratica una devianza che agli occhi dello
scrittore appare, a volte, come l’unica forma di ribellione possibile e dotata di
senso. E a un tratto, nell’Acquaforte Gru abbandonate nell’isola di Maciel
rivediamo le sagome da paesaggio cubista e le atmosfere sinistre del magnifico racconto
La luna rossa, in cui una muta folla di uomini e animali si incammina in
silenzio per le strade di una città deserta, per assistere al sorgere di un disco
sanguigno che annuncia la guerra e gridare il proprio rifiuto. La città, intesa
come corpo vivo e mostruoso, oscuro e divorante, trascolora dal reale al fantastico,
diventa metafora di una modernità minacciosa che toglie ogni significato alla parola
“progresso”, così fiduciosamente borghese, e sorge dalle pagine delle Acqueforti
e dei racconti insieme “alla luna rossa bloccata dai grattacieli vermigli”, mentre
la folla capisce che “questa volta l’incendio era divampato in tutto il pianeta,
e che non si sarebbe salvato nessuno”. Un paranoico presagio di catastrofe che è
il cuore della poetica di Arlt, e che ce lo rende più che mai contemporaneo.
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’ottobre del 2014