Juan José Saer |
Un enigma sfuggente
La letteratura argentina conta numerosi scrittori celebri che si sono cimentati
con il giallo, occasionalmente e alla loro maniera. Il più ligio alla tradizione,
fra tutti, è stato Rodolfo Walsh, con i racconti di Variazioni in rosso,
in cui le regole del “genere” vengono applicate con una certa rigidezza e quasi
meccanicamente, mentre i “problemi” risolti dal don Isidro Parodi di Borges e Bioy
Casares parodizzano il poliziesco deduttivo di stampo inglese e vi innestano una
inequivocabile satira della società argentina. Tutt’altro discorso per il Soriano
di Triste solitario y final e per José Pablo Feinmann , che, da Gli ultimi
giorni della vittima a Los crimenes de Van Gogh alla trilogia sul detective-killer
Joe Carter, rivisitano e stravolgono l’hard boiled letterario e cinematografico
nordamericano, rendendogli allo stesso tempo omaggio, come pure fa Manuel Puig in
uno dei suoi migliori romanzi, The Buenos Aires Affair, mentre Ricardo Piglia,
autore dei sofisticatissimi Soldi bruciati e Bianco notturno, usa
il genere per cercare (è lui stesso a sottolinearlo) di “ricostruire una storia
che è fuori dalla scena, fuori della superficie della narrazione”.
Nessuno di questi punti di riferimento, con i loro differenti modi di avvicinarsi
al poliziesco e di usarlo, tuttavia, può preparare il lettore al sorprendente incontro
con L’indagine (pag. 159, e.13,50) di Juan José Saer, saggista, poeta e scrittore
argentino scomparso nel 2005 a sessantotto anni, la cui narrativa, elaborata con
estremo e appartato rigore, si fonda su una ricerca formale che l’ha portata molto
lontano dal realismo sociale e da quello fantastico – due proposte per lungo tempo
dominanti nelle letterature latinoamericane – in direzione di un’avanguardia intesa
non come movimento codificato, ma come “atteggiamento nei confronti dell’arte” e
come tensione incessante verso il nuovo.
Già pubblicato nella nostra lingua nel 2006 da Einaudi, e ora riproposto nella
traduzione davvero ottima di Gina Maneri da La Nuova Frontiera (che nel 2012 aveva
presentato ai lettori italiani Cicatrici, il primo grande romanzo saeriano
della maturità), L’indagine potrebbe avere, piuttosto, dei punti di contatto
con El aire di un crimen di un altro grande scrittore, lo spagnolo Juan Benet,
se non altro perché i due testi sono fortemente connotati dalla peculiare ricerca
stilistica degli autori, che piegano il genere alle proprie esigenze e ne fanno
qualcosa di inconfondibilmente personale. Entrambi i romanzi, poi, sono ingiustamente
considerati minori in seno a corpus narrativi di straordinaria importanza e spessore,
simili a un labirinto costantemente modificati dall’aggiunta di nuovi segmenti.
E il labirinto è l’immagine che più spesso viene evocata, non a sproposito,
quando si parla di L’indagine, in cui il lettore si trova davanti a un intreccio
di enigmi diversi che sembrano sfociare uno nell’altro, e che spesso disegnano uno
spazio sia fisico che interiore, in cui i personaggi vagano, tornano sui propri
passi, si perdono, alla ricerca di un’uscita impossibile. Il primo enigma è quello
della voce narrante che occupa la prima delle tre parti in cui è diviso il romanzo:
non sappiamo a chi appartenga, dove si trovi, chi siano gli ascoltatori cui sta
raccontando la vicenda di un serial killer che ha violentato, ucciso e ritualmente
sezionato ventisette vecchie signore e, nella gelida Parigi pre-natalizia, si accinge
a eliminare la ventottesima.
Il secondo enigma è ovviamente l’identità dello spietato assassino, sulla quale
si interroga l’assorto ispettore Morvan, soggetto a trances misteriose che
lo portano a vagare nottetempo per un dedalo di strade e piazze, dove crede di scorgere
mostri simili a quelli del libro di mitologia avuto in regalo da bambino. E’ la
sua complessa storia personale a contenere il terzo enigma (quello della sua nascita
e paternità, piene di segreti), mentre il quarto, che occupa tutta la seconda parte
del libro, riguarda l’identità dell’autore di un manoscritto anonimo, un romanzo
sulla guerra di Troia intitolato En las tiendas griegas, del quale ci viene
offerto, come un regalo a sorpresa, un breve apologo sulla natura del narrare. E
l’ultimo enigma, fuggevolmente accennato ma non meno importante, è la scomparsa
di un uomo e della sua amante, sequestrati nel corso dei terribili anni ’70.
Al contrario di quanto accade nel classico romanzo poliziesco, basato su una
trama che porta al raggiungimento della verità e alla catarsi che ne consegue, a
buona parte di questi enigmi L’indagine non offre risposte, ma sembra suscitare
altre domande: il detective è incapace di ristabilire l’ordine, e la ricomposizione
del caos non può essere che fluttuante e instabile, a seconda del punto di vista
attorno al quale si organizza.
Certo, la voce narrante finisce per rivelarsi come Pichón Garay, santafesino
residente a Parigi da molti anni (come Saer stesso, che nella capitale francese
visse fino alla morte, insegnando Estetica all’Università di Rennes), capace di
trasformare un truce fatto di cronaca in un fluido racconto pieno di riferimenti
personali, deliziosi ritratti di vecchiette inaffondabili che offrono il tè ai loro
assassini, acuti commenti sulla società dei consumi e sulla percezione della realtà
imposta dai media, allusioni letterarie – per esempio al giallo francese delle origini
e alla Parigi di Poe – e mitologiche, ovviamente intrise del sadismo sanguinario
che dèi, mostri ed eroi praticano con divina naturalezza. E la scoperta che gli
ascoltatori di Pichón sono il suo amico di sempre Tomatis, giornalista e scrittore,
e un giovanotto di nome Soldi, riuniti intorno al tavolo della cena tra sigari e
birre, ci riconduce alla Zona (il nordest argentino dove l’autore era nato e cresciuto,
Santa Fé e il suo litorale, il Paranà e i suoi affluenti), un luogo al tempo stesso
reale e immaginario in cui, da un romanzo all’altro, si muovono gli stessi personaggi,
da sempre sodali e complici: un universo circoscritto ma dilatabile all’infinito,
presente sin dal libro d’esordio di Saer - la raccolta di racconti En la zona,
del 1960 - che, dice Beatriz Sarlo, come Onetti o Faulkner ha scelto di focalizzarsi
su uno “spazio del narrato, che smette di essere un semplice sfondo contro il quale
si muove la storia per diventare una materia poetica altrettanto centrale della
storia che racconta”.
In questo mondo di spiagge, pianure e grandi corsi d’acqua, dove le charlas,
le conversazioni – che delle storie di Saer sono un elemento portante – scorrono
ampie e lente come i fiumi, i tre amici sono andati in cerca, senza trovarla, della
conferma che l’autore di En las tiendas griegas è Jorge Washington Noriega,
altro vecchio amico ormai defunto, figura carismatica ispirata da quello che Saer
considerava il suo maestro, ovvero Juanele L. Ortiz, poeta grandissimo ma quasi
segreto; uno degli enigmi resta così senza soluzione, come pure quello che riguarda
la sorte di El Gato (fratello gemello di Pichón) e della sua innamorata Elsa, inghiottiti
per sempre dalle sabbie mobili della dittatura e protagonisti di Nadie Nada Nunca,
romanzo che idealmente precede L’indagine e ne annuncia i delitti attraverso
una strage di cavalli senza spiegazione.
Nemmeno la paternità di Morvan verrà davvero chiarita (suo padre è il militante
comunista che l’ha allevato, oppure l’ufficiale della Gestapo con il quale sua madre
è fuggita?), ma del killer delle vecchiette sapremo finalmente il nome, con tanto
di spiegazione psicanalitica acclusa, alla fine del racconto di Pichón… Oppure no?
Perché c’è un’altra possibilità, suggerisce Tomatis, fornendo una sua interpretazione
della storia agli amici; una nuova e convincente soluzione dell’enigma (quella,
in un certo senso, che un lettore attento potrebbe divertirsi a elaborare alla fine
di un romanzo, “riscrivendolo” secondo il proprio punto di vista) si affaccia così
nelle ultime pagine, mentre Morvan sfoglia il suo libro di mitologia che contiene,
da tempo infinito, tutti i mostri, tutto il sangue, tutte le passioni. E può darsi
(oppure no) che sia quella giusta, perché, come Saer tenta di dirci in ogni pagina
della sua opera, appoggiandosi a una scrittura luminosa, lenta e piena di dettagli,
incredibilmente vicina alla perfezione, una storia è già vera per il semplice fatto
di essere raccontata, e il suo compito è aggiungere peso, densità e senso a una
realtà sfuggente, che va affrontata interrogandola di continuo con gli strumenti dell’arte.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel dicembre 2014