Mario Levrero |
La novela luminosa
C’è una definizione che, a partire dalla fine del XIX secolo, ricorre nella
critica letteraria latinoamericana e spagnola: los raros (ovvero gli eccentrici,
gli irregolari, quelli che “non somigliano a nessuno”, come scrive Italo
Calvino a proposito di Felisberto Hernández), usata per la prima volta da Rubén
Darío come titolo di un libro del 1896, in cui il poeta nicaraguense riunì i ritratti
degli scrittori che considerava estranei alla tradizione e al canone, o capaci di
scalarne le mura ben difese. Inutile sottolineare che quasi tutti i raros
indicati da Darío si sono trasformati in classici e che col tempo il senso e il
significato della rareza sono cambiati più volte. Nel 1966, per esempio,
il critico Ángel Rama ha raccolto in Aquí. Cien años de raros, i racconti
di quattordici scrittori uruguayani, inserendoli in una linea segreta, estesa e
profonda, di “stranezza” nazionale. Il contributo più interessante l’ha dato però
lo spagnolo Pere Gimferrer, con un saggio del 1985 anch’esso intitolato Los raros,
in cui suggerisce che, estinto il canone e sostituita la tradizione con mode fuggevoli,
tutto può ormai rientrare nella categoria della rareza. Raro, allora,
sarà oggi quell’autore che “che viene letto male, o capito male, o diffuso male”,
quindi marginale, irregolare, noto solo a un pubblico ristretto e specializzato,
e a volte ironicamente destinato a una fortuna postuma.
Quello che scrive Gimferrer si adatta in particolare al caso di Mario Levrero,
scrittore uruguayano scomparso nel 2004, molto amato in vita da una cerchia di lettori
non casuali, spesso “capito male” dalla critica e ora oggetto di una riscoperta
che si appoggia tanto sulle nuove edizioni di titoli prima introvabili, quanto su
un congruo numero di analisi e studi, frutto di un ormai robusto interesse accademico.
All’origine di questo fermento critico ed editoriale c’è La novela luminosa,
l’ultimo romanzo, il più complesso e il più lungo, pubblicato un anno dopo la scomparsa
di Levrero; dopo averlo letto, molti hanno gridato al capolavoro, come lo scrittore
argentino Fogwill, e altri gli hanno attribuito la stessa importanza del 2666
di Bolaño (ma i due autori non potrebbero essere più diversi), ipotizzando, come
la rivista messicana Letras Libres, che il libro si trasformerà in un faro
“di quanto verrà scritto nel nostro continente in un prossimo futuro”.
Oggi Il romanzo luminoso (pag. 700, e. 19) arriva anche in Italia nella
traduzione di Maria Nicola, per inaugurare una nuova impresa della Jaca Book, editore
che torna alla narrativa con Calabuig, collana dedicata ai classici di domani: una
scelta interessante, quella di cominciare con un autore misterioso, originale, poco
noto (di Levrero era stato tradotto un unico racconto, inserito in Inchiostro
sangue. Antologia di racconti e saggi del Rio de la Plata a cura di Loris Tassi
e Antonella De Laurentis per Arcoiris), e soprattutto lontano da quel gusto medio
orientato al ribasso che sembra la stella polare della nostra editoria. Vale la
pena, in effetti, di seguire il percorso di Jorge Mario Varlotta Levrero, nato nel
1940 a Montevideo, che a ventisei anni si sdoppiò in Mario Levrero e Jorge Varlotta,
riservando il primo nome alla narrativa e ai laboratori di scrittura, il secondo
ai testi umoristici, alla sceneggiatura di fumetti, all’attività giornalistica e
alla creazione di cruciverba. E, tra i due, fu attorno a Mario Levrero che si consolidò
negli anni il mito del solitario perdutamente eccentrico, hacker indefesso, pieno
di fobie e interessato alla parapsicologia, all’ipnosi, alla telepatia, scrittore
inclassificabile e allergico alle interviste.
Dalla prima apparizione di un suo testo (il racconto Gelatina, del 1968)
a Il romanzo luminoso, la traiettoria letteraria di Levrero appare mutevole
ma non incoerente, pronta a lasciarsi contaminare da materiali come il cinema, il
fumetto, i cartoni animati, il tango, la pornografia, e a sfiorare i confini del
fantastico, della fantascienza e del poliziesco (uno dei suoi romanzi, Nick Carter
se divierte mientras el lector es asesinado y yo agonizo, è uno stravolgimento
parodico del giallo d’azione) senza mai esserne davvero inghiottita, mentre segue
la corrente di quello che Angel Rama ha chiamato “libertinaggio immaginativo”, ben
evidente in un romanzo d’esordio riconoscibilmente kafkiano, La ciudad (1970),
e nei due successivi, Parìs (1980) e El lugar (1982): una “trilogia
involontaria” che l’autore dirà di considerare come un unico testo, abitato da personaggi
vaganti in una realtà tra onirica e carceraria, allegoria trasparente dei labirinti
interiori. Nei libri successivi – una decina, tra nouvelles e raccolte di racconti
quasi sempre straordinari – Levrero si affida a trame zigzaganti, in cui le metamorfosi
e le distorsioni spazio-temporali nascondono un’ostinata ricerca su quello che,
sarà lui stesso a dirlo, è il suo vero tema, e cioè “l’identità e i limiti dell’io”,
esplorati da qualcuno che “non si è mai sentito disegnato per vivere in questo mondo”:
storie che secondo il loro autore non sono né surreali né fantastiche, ma rappresentano
una realtà logorata e deformata come un paio di scarpe indossate a lungo, e avviluppano
il lettore in una ragnatela, ipnotizzandolo con la loro travolgente alterità.
Nel 1996, finalmente, si arriva a El discurso vacío, diario uno scrittore
che intraprende una autoterapia grafologica, decidendo di svuotare il testo di ogni
contenuto per concentrarsi sulla calligrafia, ma finendo per costruire il racconto
di una terribile quotidianità modellata dall’inconscio. Ed è proprio El discurso
vacío a preparare e anticipare l’opus magnum di Mario Levrero, in cui si racconta
di uno scrittore in perenni difficoltà finanziarie, che riceve una borsa Guggenheim
per terminare un libro cominciato molti anni prima. Ma per poter rimettere mano
al suo “romanzo luminoso” l’autore deve creare le condizioni ideali per la scrittura:
perciò, confortato da un improvviso e modesto benessere, spende i soldi della borsa
in comodità domestiche e romanzi polizieschi, e naturalmente si allena, scrive ogni
giorno per arrivare a un impossibile stato di grazia, componendo un Diario della
borsa che farà da lunghissimo prologo al romanzo vero e proprio, destinato a
rimanere tale e quale: poco più di cento pagine, un pugno di capitoli neppure rivisti
o corretti.
Giorno per giorno, ora per ora, ci viene narrata la vita di un uomo anziano,
ipocondriaco e agorafobico, un solitario che però riceve le visite di amici fedeli,
degli allievi e delle donne che lo amano o lo hanno amato (compresa un’adorata ragazza
sempre più distaccata e lontana), e che passa le notti sveglio davanti al computer.
Un racconto minutamente e apertamente autobiografico che si ramifica di continuo
in altre storie, associazioni di idee, ricordi, sogni, voci, digressioni su nuove
letture che irretiscono e su voli di uccelli nella terrazza vicina, dove imputridisce
il cadavere di un piccione. Un anno di scrittura centrato paradossalmente sull’impossibilità
di scrivere, mentre lo scivolare insensibile verso una morte non troppo lontana,
le notti divorate dai videogiochi e dalla pornografia in rete, la coazione a un
ozio vuoto, ma in realtà incline a riempirsi da solo fino a traboccare, delineano
uno scenario di disastro, di sconfitta, sia pure disegnato con l’umorismo che è
una delle caratteristiche di tutta l’opera di Levrero, sempre capace di cogliere
il “lato allegro della tragedia”. Solo alla fine del diario, gorgo che inghiotte
chi legge e lo lascia stordito, quasi inconsapevole di aver divorato cinquecento
pagine fino a fondersi con un narratore che ha condiviso con lui un’ossessiva e
caustica dissezione della propria impotenza, si arriva ai cinque capitoli scritti
vent’anni prima, che cercano di trasmettere bizzarre esperienze spirituali, lampi
di luce trasmettibili solo grazie a una letteratura intesa come forma di comunicazione
profonda, che attraversa la membrana della realtà e ne riscrive i codici.
Il vero “romanzo luminoso”, però, non sta in quelle ultime cento pagine: è in
realtà il prologo, l’oceanica introduzione, il prodigio del diario che si avvia
a diventare una delle opere capitali della letteratura latinoamericana del nuovo
secolo, e che una volta di più ci conferma qualcosa in cui Levrero credeva fermamente:
“Quando si è giovani e inesperti, si cercano le storie importanti, nei libri come
nei film. Col passare del tempo si scopre che la storia non ha molta importanza;
lo stile, il modo di raccontare, sono tutto”.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre 2014