Il gioco del linguaggio di Daniel Sada
“Davanti agli oltre centomila omicidi e ai trentamila desaparecidos provocati
dalla presunta “guerra” contro le droghe del presidente Felipe Calderón, la narrativa
messicana non è stata all’altezza della catastrofe politica che si nasconde in ciò
che con eccessiva disinvoltura chiamiamo narco. […] Com’è frequente nella
musica popolare, nel cinema e nell’arte concettuale sul narco, la maggioranza
dei narcoromanzi scritti nella prima decade del XXI secolo affrontano il fenomeno
in modo politicamente neutro”.
Il severo giudizio sulla vasta produzione “narcoculturale” è di Oswaldo Zavala
– studioso messicano da tempo trapiantato negli Stati Uniti, dove insegna al CUNY
Graduate Center –, che molto ha scritto sulla letteratura nata nel nord del Messico
e sulla sua mitologia. Secondo Zavala, gran parte dei romanzi messicani sul narcotraffico
si adatta in realtà al discorso governativo, che attribuisce la tragica situazione
del paese solo a un’interminabile lotta fra cartelli della droga decisi a sfidare,
erodere e perfino sostituire l’autorità dello Stato; ed è proprio perché sorvola
quasi sempre sulla “dimensione criminosa” e la violenza del potere ufficiale, non
inferiore a quella dei cartelli, che un filone di grande successo come la cosiddetta
narcoliteratura rischia oggi di prosperare su luoghi comuni e formule quasi
meccaniche, diventando parte di un panorama dominato “da opere commerciali, depoliticizzate,
frivole e irrilevanti”.
Un’eccezione alla regola, dice lo studioso messicano, è però rappresentata da
Daniel Sada, scomparso nel 2011 a cinquantotto anni, lasciando alle “vaste minoranze”
dei suoi lettori ben undici romanzi, otto raccolte di racconti e tre di versi: uno
scrittore che per ragioni diverse e ben motivate è stato via via accostato a Lezama
Lima, a Rulfo e a Gadda (non a caso il protagonista del racconto di Sada Atrás quedó lo disperso ha l’abitudine di distribuire
copie di El zafarrancho aquel de via Merulana, ovvero del celebre Pasticciaccio),
ma che, al di là di ogni suggestione, è reso unico da una personalissima
ricerca formale, da incessanti invenzioni lessicali, dal travaso del rigore e della
musicalità della poesia classica nella prosa moderna, e infine dalla conversione
dell’oralità popolare in sofisticato linguaggio letterario, a testimonianza di quella
che lui stesso ha definito “una scommessa sulle qualità della lingua”.
Benché Sada si sia sempre rifiutato di proporsi come uno scrittore apertamente
politico o di denuncia, alla José Revueltas, Zavala sostiene giustamente che l’analisi
dei meccanismi formali della sua opera ha fatto passare in secondo piano la dimensione
politica ed etica sottesa a un così peculiare uso del linguaggio, e indica due romanzi,
scritti a distanza di anni, come chiavi utili a interpretare il presente del Messico:
Porque parece mentira la verdad nunca se sabe (1999), considerato il capolavoro
sadiano, e El lenguaje del juego (2012), uscito postumo, che viene ora pubblicato
dall’editore Del Vecchio (Il linguaggio del gioco, traduzione di Carlo Alberto
Montalto, pag. 241, e. 15) cui dobbiamo anche l’apparizione, due anni fa, del magnifico
Quasi mai. In entrambi, la scrittura di Sada dà vita a un fiume di storie
che scorre in uno dei luoghi più aridi e desolati del continente americano, il deserto
a cavallo della Frontiera, sfondo costante sia della migrazione che ha portato negli
USA milioni di messicani, sia del narcotraffico.
In Il linguaggio del gioco, Sada ha vinto per la prima volta la propria
riluttanza a trattare temi strettamente legati alla narconovela, da lui considerata
una moda esecrabile; era consapevole, infatti, di come fosse impossibile raccontare
ancora del deserto dov’era nato e cresciuto e in cui la sua narrativa è saldamente
radicata, senza tenere presenti le profonde trasformazioni indotte dalla violenza
dei cartelli e da quella parallela dello Stato. L’argomento non poteva né doveva
essere eluso, insomma, ma Sada è riuscito a trattarlo in modo imprevedibile, scegliendo,
sottolinea il critico Federico Campbell, di fare del narco non un testo,
ma un contesto all’interno del quale i personaggi si muovono alla ricerca della
propria identità e tentano di costruirsi un’esistenza serena, come accade a Valente
Montaño, che per diciotto volte ha varcato clandestinamente la frontiera, vivendo
da indocumentado negli Stati Uniti, per essere puntualmente scoperto e deportato.
La diciottesima volta, però, è diversa dalle altre, perché Valente ha ormai
messo da parte abbastanza denaro per aprire, insieme alla moglie Yolanda e ai figli
Martina e Candelario, una pizzeria (l’unica e sola, in terra di tortillas)
nel piccolo e sonnolento paese di San Gregorio, perso nel deserto: un posto dove
non succede mai nulla, proprio come a Remadrín, la cittadina di Porque parece
mentira; ma tanta quiete verrà spazzata via da una violenza uguale e diversa:
quella dell’esercito a Remadrín, dove una truffa elettorale ha scatenato un massacro,
e quella del narcotraffico a San Gregorio, luogo considerato strategico da due cartelli
rivali e pronto a diventare il palcoscenico di un confronto sanguinoso al quale
i partiti, la chiesa, le istituzioni, la polizia e gli abitanti sembrano attivamente
adattarsi. La vita dei Montaño, assorti fino a poco prima in un laborioso “sogno
messicano” fatto di duro lavoro, onore e risparmio, verrà così devastata – come,
del resto, quella di tutti gli altri – e la famiglia si disintegrerà, mentre Candelario
diventa un sicario e poi un piccolo boss, e Martina va incontro alla violenza estrema
di un compagno brutale, a sua volta torturato e ucciso dai trafficanti.
La decomposizione sociale, familiare e individuale viene registrata passo dopo
passo, il sangue che scorre a fiumi e i dettagli cruenti sono puntualmente descritti,
finché il romanzo si trasforma in un viaggio delirante e la storia dei Montaño sembra
adombrare quella di una nazione intera. Eppure Sada non rinuncia mai a un tono quasi
picaresco, all’approccio comico e satirico, allo humour nerissimo che sono tra le
sue caratteristiche principali e sembrano sgorgare spontanei da una voce narrante,
che, senza rivelarsi, si intromette, svela dettagli nascosti e sollecita il giudizio
del lettore, non risparmiandogli il proprio, spesso crudele ma non immune da un
certo disincantato affetto per i personaggi.
Chi ha letto Quasi mai riconoscerà all’istante questa voce, che è indubbiamente
la stessa, ma potrà anche misurare la distanza tra il nord del Messico di quarant’anni
fa, descritto in quel lungo e magistrale romanzo, e il Messico di oggi (che l’autore,
sempre pronto a distorcere e reinventare i nomi di regioni e città, chiama Mágico)
raccontato in Il linguaggio del gioco: una volta disseminato di villaggi
isolati e pigre cittadine prigionieri di un tempo immobile, il deserto si è fatto
frenetico, i suoi centri abitati oscillano tra uno sviluppo caotico e improvvise
devastazioni. E anche la prosa di Sada, rispetto a quella lenta e sontuosa di Quasi
mai, si adatta al cambio di passo e ricorre a frasi brevissime, cerca un ritmo
più rapido, diventa concisa e concentrata, ma non per questo meno “sadiana”: il
linguaggio continua a intrecciare arcaismi e neologismi con elementi poetici e regionali,
creando uno stile inconfondibile e mettendo a dura prova il traduttore che, inevitabilmente,
può solo in parte restituirlo in italiano. Ma chi traduce, come chi legge, non potrà
negare che valga almeno la pena di provarci.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel marzo 2015