Hilda Mundy |
Hilda Mundy, un segreto ben custodito
Si chiama Los libros de la Mujer Rota (il riferimento a Una donna
spezzata di Simone de Beauvoir non potrebbe essere più esplicito) ed è una nuova
arrivata nel panorama della microeditoria latinoamericana, vero arcipelago di isolotti
vulcanici che emergono all’improvviso in un oceano presidiato da leviatani quali
Penguin-Random House o Planeta, grandi e voraci gruppi stranieri cui fa capo buona
parte dell’editoria locale. Creata da una scrittrice cilena, Claudia Aplabaza, giovane
e già piuttosto nota per i suoi romanzi e racconti (Diario de las especies,
Siempre te creíste la Virginia Woolf, Goo y el amor), la piccola editorial
può contare sull’esperienza che la sua fondatrice ha maturato nelle Ediciones Barataria
durante gli anni vissuti a Barcellona, e si fa conoscere tramite un sito elegante
e disadorno, ancora semivuoto ma già abitato da un’ambiziosa dichiarazione di intenti
e dall’annuncio dell’uscita, pochi giorni fa, di Pirotecnia. Ensayo miedoso de
literatura ultraísta di Hilda Mundy, il primo libro del catalogo. E che
libro: un “pezzo scelto”, come si legge sulla raffinata copertina rossa, ma soprattutto
un pezzo raro, che, con il supporto del prologo di Edmundo Paz Soldán, riporta alla
luce l’opera di un’autrice boliviana praticamente sconosciuta al di fuori del suo
paese, dove, peraltro, è nota soprattutto a critici e intellettuali sufficientemente
curiosi.
Si potrebbe dire che Hilda Mundy (nata nel 1912 e scomparsa nel 1982, si chiamava
in realtà Laura Villanueva Rocabado) sia sempre stata una scrittrice ai margini,
per ragioni diverse: per esempio la diffidenza troppo a lungo nutrita dalla critica
e dall’accademia boliviane nei confronti delle donne letterate, e poi il silenzio
in cui Hilda si chiuse a soli ventiquattro anni, rinunciando alla scrittura dopo
il matrimonio con il poeta Antonio Ávila Jiménez e scomparendo dalla scena culturale.
Ma se Hilda Mundy resta ancora oggi uno dei tanti secretos mejor guardados
della letteratura latinoamericana lo si deve innanzitutto al carattere singolarissimo
dei suoi testi: un’opera esigua e inclassificabile, composta solo da due titoli
– il già citato Pirotecnia, del 1936, e il postumo Cosas de fondo. Impresiones
de la guerra del Chaco y otros escritos del 1989, in cui sono raccolti i tanti
scritti apparsi su quotidiani e riviste –, entrambi animati da un corrosivo humour
nero estraneo alla tradizione letteraria boliviana, e tali da far considerare l’autrice
come l’unica (o quasi) esponente dell’avanguardia nel proprio paese. Influenzata
dall’ultraísmo spagnolo, dal futurismo, dal modernismo, la sua prosa è un
torrente di metafore che lasciano il segno, sfugge a ogni definizione, si rifiuta
di incanalarsi nelle forme consacrate del romanzo, del racconto, del pamphlet, e
sembra quasi annunciare con largo anticipo l’antipoesia di Nicanor Parra. Vale la
pena di avvicinarsi a lei in quanto interprete acuta e ironica dei ruoli femminili,
oppure di scoprirla in veste di beffarda osservatrice che, con insistita levità,
in una serie di crónicas alquanto anomale scruta dalle retrovie domestiche
le incongruenze di una guerra inutile e sanguinosa come quella del Chaco; ma soprattutto
andrebbe letta la Mundy delle brevi, straordinarie “glosse” di Pirotecnia,
un fuoco d’artificio che nasce da una coscienza critica così estrema da bruciare
e consumare tutto ciò su cui si posa (“La mia critica è un essere vivo, come un
cancro”), per restituircelo rinominato e giocosamente ricomposto, si tratti della
città attraversata da macchine e popolata da nuovi oggetti tecnologici, oppure delle
persone che la abitano e dei ruoli che l’immaginario sociale ha predisposto per
loro, o addirittura delle norme tipografiche.
Vale la pena, insomma, di leggere qui e ora il mondo “riletto” da Hilda Mundy
e dal suo sguardo straniante e implacabile: ci sarà mai nessuno che si offra di
renderlo accessibile nella nostra lingua?
Questo articolo è apparso su Alfabeta nell’aprile del 2015