Hebe Uhart |
Hebe Uhart, il romanzo breve di una maestra del racconto
Racconta la scrittrice Mariana Enriquez che non molti anni fa, in uno storico
hotel argentino, si tenne un convegno cui parteciparono tra gli altri Rodolfo Fogwill
ed Hebe Uhart, due autori agli antipodi. Fogwill, scrittore straordinario e critico
severissimo, accolse la Uhart ripetendo a gran voce un giudizio che aveva espresso
più volte e che, venendo da lui, rappresentava una consacrazione: “La migliore scrittrice
argentina!”. Lei, schiva e riservata, rispose con un secco: “Dejate de joder”.
Ma Fogwill, scomparso nel 2010, in un certo senso non ha mai smesso di “joder”,
perché quell’apprezzamento riaffiora ancora oggi in tutti gli articoli sulla scrittrice
e nelle quarte di copertina dei suoi libri, compresa quella di Traslochi,
piccolo romanzo uscito per la prima volta nel 1995 e ora apparso in italiano per
la nuova collana Calabuig della Jaca Book, nell’ottima versione di Maria Nicola
(pag. 120, e. 12).
Anche se resta il più citato, Fogwill è solo uno tra i tanti estimatori della
Uhart, tra i quali si contano Riccardo Piglia ed Elvio Gandolfo, mai stanchi di
sottolineare i meriti di una scrittrice troppo a lungo segreta e tuttavia amata
da una ristretta cerchia di lettori pronti ad afferrare al volo i suoi libri, affidati
a piccoli editori dall’esistenza travagliata e destinati a sparire con essi. Solo
da una decina d’anni, infatti, l’autrice è approdata a case editrici meno instabili
(per esempio all’indipendente e solida Adriana Hidalgo, che pubblica anche le sue
splendide cronache di viaggio, o alla sofisticata Interzona), fino alla pubblicazione
nel 2010 dei Relatos reunidos da parte di Alfaguara, marchio importante che
ha garantito adeguata circolazione a testi ormai introvabili come La elevación de Maruja, Camilo asciende, Memorias de un pigmeo, Guiando la hiedra,
Señorita, prodotti nel corso di una carriera iniziata nel 1962, quando Hebe Uhart stava per laurearsi in filosofia (materia che ha
poi insegnato per molti anni all’Università, al fianco di Thomas Abraham).
Traslochi, primo titolo della Uhart tradotto in Italia,
è un esempio perfetto del suo universo narrativo: la storia di una famiglia di immigrati,
costruita sommando nitide immagini quotidiane di una precisione quasi fotografica.
Chi conosca la vicenda personale dell’autrice – nata e cresciuta a Moreno, un paesetto
vicino a Buenos Aires, in una famiglia di origini italiane e basche – potrebbe trovarne
traccia in queste pagine che raccontano di eventi minimi e vite qualunque. Ma l’elemento
autobiografico sfuma sino a perdere importanza, grazie all’uso di una terza persona
da cui traspare uno sguardo attentissimo che osserva e registra ogni cosa, anche
la più familiare, come se la vedesse per la prima volta, trasmettendoci un senso
di straniamento lieve e inquietante; ed è appunto questo modo di guardare, insieme
un’eccezionale capacità di ascolto riflessa in un linguaggio che dà minutamente
conto dell’oralità e della parlata popolare, a modellare le frasi brevi e terse
della narrazione e a fare da collante tra i temi e i personaggi che la Uhart predilige:
vecchi e donne, adolescenti alla scoperta di sé, bambini che ci trasmettono una
dura visione del mondo adulto, e poi la vita di un villaggio che sta per diventare
piccola città, le solitudini che abitano Buenos Aires, la scuola, la frattura tra
“seconde generazioni” e padri immigrati.
Una storia fatta di spostamenti a volte impercettibili ma continui, quella di
Traslochi: la modesta ascesa verso un’altra classe sociale, il trasferimento
nella capitale, i cambiamenti di domicilio e di lavoro, di abitudini e anche di
linguaggio, là dove i figli, più istruiti e ormai argentini, si allontanano dal
cocoliche materno. E si trasloca anche da un personaggio a un altro, mentre
dal gruppo emergono via via i primi piani di figure pronte a farsi raccontare con
leggerezza, anche in presenza della morte e della malattia o della follia perentoria,
vociante e senza spiegazioni in cui scivola Maria, l’unica figlia femmina della
famiglia.
Romanzo ricco di sfumature di suggestioni profonde, che con le sue centoventi
pagine conferma il culto per la brevità di una maestra del racconto, Traslochi
induce a chiedersi come mai questa outsider quasi ottantenne sia stata riconosciuta
così tardi per ciò che è, ossia qualcuno “di cui si dice una sola cosa: che è la
migliore”, come sottolinea Leila Guerriero. Ma, quale che sia la risposta, è certo
che la nuova attenzione per la sua opera si deve anche alle giovani ed esigenti
generazioni di lettori latinoamericani e alla loro scoperta, compiuta non senza
stupore, di un’autrice audacemente minimalista, che non ha nulla da invidiare alle
celebratissime Alice Munro o Lydia Davis, con le quali condivide la predilezione
per la quotidianità, le piccole cose, gli interni domestici, con in più un sommesso e stralunato umorismo, una profondità e una passione per il dettaglio
in cui si avverte l’influsso di colui che la Uhart riconosce come suo unico maestro:
l’uruguayano Felisberto Hernández, uno dei più grandi ed
eccentrici cuentistas latinoamericani.
Questo articolo è apparso su Alfabeta nel luglio del 2015