sabato 18 luglio 2015

Da leggere: Hebe Uhart


Hebe Uhart





Hebe Uhart, il romanzo breve di una maestra del racconto 

Racconta la scrittrice Mariana Enriquez che non molti anni fa, in uno storico hotel argentino, si tenne un convegno cui parteciparono tra gli altri Rodolfo Fogwill ed Hebe Uhart, due autori agli antipodi. Fogwill, scrittore straordinario e critico severissimo, accolse la Uhart ripetendo a gran voce un giudizio che aveva espresso più volte e che, venendo da lui, rappresentava una consacrazione: “La migliore scrittrice argentina!”. Lei, schiva e riservata, rispose con un secco: “Dejate de joder”. Ma Fogwill, scomparso nel 2010, in un certo senso non ha mai smesso di “joder”, perché quell’apprezzamento riaffiora ancora oggi in tutti gli articoli sulla scrittrice e nelle quarte di copertina dei suoi libri, compresa quella di Traslochi, piccolo romanzo uscito per la prima volta nel 1995 e ora apparso in italiano per la nuova collana Calabuig della Jaca Book, nell’ottima versione di Maria Nicola (pag. 120, e. 12).

Anche se resta il più citato, Fogwill è solo uno tra i tanti estimatori della Uhart, tra i quali si contano Riccardo Piglia ed Elvio Gandolfo, mai stanchi di sottolineare i meriti di una scrittrice troppo a lungo segreta e tuttavia amata da una ristretta cerchia di lettori pronti ad afferrare al volo i suoi libri, affidati a piccoli editori dall’esistenza travagliata e destinati a sparire con essi. Solo da una decina d’anni, infatti, l’autrice è approdata a case editrici meno instabili (per esempio all’indipendente e solida Adriana Hidalgo, che pubblica anche le sue splendide cronache di viaggio, o alla sofisticata Interzona), fino alla pubblicazione nel 2010 dei Relatos reunidos da parte di Alfaguara, marchio importante che ha garantito adeguata circolazione a testi ormai introvabili come La elevación de Maruja, Camilo asciende, Memorias de un pigmeo, Guiando la hiedra, Señorita, prodotti nel corso di una carriera iniziata nel 1962, quando Hebe Uhart stava per laurearsi in filosofia (materia che ha poi insegnato per molti anni all’Università, al fianco di Thomas Abraham).

Traslochi, primo titolo della Uhart tradotto in Italia, è un esempio perfetto del suo universo narrativo: la storia di una famiglia di immigrati, costruita sommando nitide immagini quotidiane di una precisione quasi fotografica. Chi conosca la vicenda personale dell’autrice – nata e cresciuta a Moreno, un paesetto vicino a Buenos Aires, in una famiglia di origini italiane e basche – potrebbe trovarne traccia in queste pagine che raccontano di eventi minimi e vite qualunque. Ma l’elemento autobiografico sfuma sino a perdere importanza, grazie all’uso di una terza persona da cui traspare uno sguardo attentissimo che osserva e registra ogni cosa, anche la più familiare, come se la vedesse per la prima volta, trasmettendoci un senso di straniamento lieve e inquietante; ed è appunto questo modo di guardare, insieme un’eccezionale capacità di ascolto riflessa in un linguaggio che dà minutamente conto dell’oralità e della parlata popolare, a modellare le frasi brevi e terse della narrazione e a fare da collante tra i temi e i personaggi che la Uhart predilige: vecchi e donne, adolescenti alla scoperta di sé, bambini che ci trasmettono una dura visione del mondo adulto, e poi la vita di un villaggio che sta per diventare piccola città, le solitudini che abitano Buenos Aires, la scuola, la frattura tra “seconde generazioni” e padri immigrati.

Una storia fatta di spostamenti a volte impercettibili ma continui, quella di Traslochi: la modesta ascesa verso un’altra classe sociale, il trasferimento nella capitale, i cambiamenti di domicilio e di lavoro, di abitudini e anche di linguaggio, là dove i figli, più istruiti e ormai argentini, si allontanano dal cocoliche materno. E si trasloca anche da un personaggio a un altro, mentre dal gruppo emergono via via i primi piani di figure pronte a farsi raccontare con leggerezza, anche in presenza della morte e della malattia o della follia perentoria, vociante e senza spiegazioni in cui scivola Maria, l’unica figlia femmina della famiglia.

Romanzo ricco di sfumature di suggestioni profonde, che con le sue centoventi pagine conferma il culto per la brevità di una maestra del racconto, Traslochi induce a chiedersi come mai questa outsider quasi ottantenne sia stata riconosciuta così tardi per ciò che è, ossia qualcuno “di cui si dice una sola cosa: che è la migliore”, come sottolinea Leila Guerriero. Ma, quale che sia la risposta, è certo che la nuova attenzione per la sua opera si deve anche alle giovani ed esigenti generazioni di lettori latinoamericani e alla loro scoperta, compiuta non senza stupore, di un’autrice audacemente minimalista, che non ha nulla da invidiare alle celebratissime Alice Munro o Lydia Davis, con le quali condivide la predilezione per la quotidianità, le piccole cose, gli interni domestici, con in più un sommesso e stralunato umorismo, una profondità e una passione per il dettaglio in cui si avverte l’influsso di colui che la Uhart riconosce come suo unico maestro: l’uruguayano Felisberto Hernández, uno dei più grandi ed eccentrici cuentistas latinoamericani.

 

 

Questo articolo è apparso su Alfabeta nel luglio del 2015