Manuel Chaves Nogales |
Le Bestie, gli Eroi e i Martiri di Manuel Chaves Nogales
In un’Europa senza memoria chi si ricorda, oggi, dei campi di concentramento
in cui settantasei anni fa la Francia rinchiuse gli spagnoli in fuga, dopo la definitiva
sconfitta della Repubblica? “Disfatti, malridotti, furiosi, schiacciati, con la
barba lunga, non lavati, sporchi, sudati, stanchi” e tuttavia “il meglio della Spagna”
(così li racconta Max Aub), nel giro di tre settimane quasi cinquecentomila profughi
varcarono la frontiera a piedi o con mezzi di fortuna e vennero poi stipati nei
campi di Argelés-sur-mer, Barm, Gurs, Saint Cyprien e altri ancora, in condizioni
definite atroci dallo scrittore catalano-messicano Jordi Soler, figlio e nipote
di rifugiati, che ha evocato sul quotidiano El País la memoria di “una pagina
oscura della storia di Francia cancellata dalla storia ufficiale”, per poi aggiungere:
“Sembra che nel modo di trattare i migranti operi una sinistra simmetria… I cadaveri
sospinti dalla onde sulle spiagge di Lampedusa sono l’eco nefasta di quelli che
giacevano, non troppo tempo fa, sulla spiaggia di Argelés-sur-mer”.
Altri rifugiati spagnoli, almeno diecimila, fecero in senso inverso il viaggio
via mare che oggi compiono i migranti, approdando in Nordafrica su navi come il
mercantile Stanbrook – il suo capitano sfidò la volontà degli armatori imbarcando
quasi tremila “clandestini” per portarli da Alicante a Orano, verso un destino comunque
incerto – mentre ventimila partirono per il Messico grazie al governo di Lázaro
Cárdenas, che praticò una straordinaria politica di aiuto ed accoglienza.
Prima di quell’enorme esodo collettivo, però, nel corso dei tre anni di un conflitto
durissimo e combattuto ad armi impari c’era stato un lungo stillicidio di partenze
e addii. Tra gli altri, quello di uno dei migliori giornalisti spagnoli, Manuel
Chaves Nogales, nato a Siviglia nel 1897 e firma illustre di quotidiani e riviste
come El Heraldo de Madrid, Estampa e Ahora, nonché convinto
sostenitore della Repubblica e del suo ultimo presidente, Manuel Azaña: non appena
il governo repubblicano trasferì la sua sede da Madrid a Valencia, nel novembre
del 1936, Chaves decise infatti di rifugiarsi a Parigi con la famiglia e là rimase
fino al 1940, quando, ricercato dalla Gestapo, partì fortunosamente per Londra,
dove sarebbe morto nel 1944 per una fulminea peritonite. Non era, ovviamente, un
rifugiato “di lusso”, ma d’eccezione sì: da inviato speciale aveva raccontato l’evolversi
del regime sovietico come la nascita del nazismo e del fascismo, in seguito aveva
diretto uno dei principali quotidiani spagnoli ed era abbastanza importante e conosciuto
perché, al suo arrivo, il governo francese gli assegnasse un modesto appartamento
e diversi giornali latinoamericani e francesi gli offrissero di collaborare (più
tardi, in Inghilterra, farà parte dell’agenzia di stampa Atlantic-Pacific Press).
Chaves ebbe dunque la fortuna, pur tra le mille difficoltà dell’esilio, di potersi
guadagnare da vivere con il suo mestiere (e la sua passione) di sempre, scrivendo
incessantemente non solo articoli, ma saggi assai acuti – per esempio Agonia
della Francia, del 1941, dura testimonianza sul governo di Vichy, tradotto l’anno
scorso in italiano da Hado Lyria per Neri Pozza – che andavano ad aggiungersi ad
altre sue opere di successo, come La vuelta a Europa en avión. Un pequeño burgués
en la Rusia roja, del 1929, e ancora El maestro Juan Martínez que
estaba allí, del ’34, o Juan Belmonte matador de toros (Neri Pozza
2014), splendida biografia di un famosissimo torero. Appena arrivato a Parigi, inoltre,
scrisse “a caldo” nove racconti sulla guerra civile destinati al quotidiano argentino
La Nación, che nel ’37 furono raccolti da un editore cileno in un volume intitolato
A sangre y fuego. Héroes, Bestias y mártires de España, per essere subito
tradotti negli Stati Uniti e in Canada: un testo ormai giudicato fondamentale in
seno alla vastissima letteratura su un tema ineludibile, e che tuttavia in Spagna
rimase praticamente ignoto fino al 1993, quando le opere complete di Chaves vennero
pubblicate a cura di María Isabel Cintas Guillén, studiosa sivigliana che si è dedicata
alla riscoperta dell’autore, ormai del tutto dimenticato. Toccherà poi ad Andrés
Trapiello includere il prologo di A sangre y fuego nel suo discusso saggio
Las armas y las letras. Literatura y guerra civil, contribuendo così all’attuale
fortuna editoriale degli scritti di Chaves Nogales, riproposti in questi anni: un
successo consacrato sia dalla critica che dall’attenzione di scrittori autorevoli
come Antonio Muñoz Molina.
Divenuto rapidamente un “classico moderno” di cui vengono riconosciute la qualità
estetica e il forte impatto emotivo, A sangre y fuego esce oggi in italiano
grazie all’editore La Nuova Frontiera, nell’accurata traduzione di Elisa Tramontin
(A ferro e fuoco. Eroi, belve e martiri di Spagna pag. 327, e. 16): un libro
sorprendente, uscito giusto in tempo per rinfrescare la memoria collettiva in vista
dell’ottantesimo anniversario della Guerra Civile, che cade l’anno prossimo. Da
Massacro, massacro!, sui bombardamenti di Madrid, a E in lontananza, una
lucina, con la sua caccia a una rete di spia falangiste che comunicano tra loro
grazie a segnali luminosi, fino a I guerrieri marocchini e Le gesta dei
cavalieri, dove la stupidità e la violenza senza scampo della guerra, di qualsiasi
guerra, sembrano riscattate dal fugace incontro tra nemici che non riescono a rinnegare
la propria umanità, le storie di Chaves Nogales testimoniano del talento di un giornalista
fedele al motto di Robert Capa (“Se la foto riesce male, vuol dire che non eri abbastanza
vicino”), che osserva e descrive quanto lo circonda con un linguaggio pulito e incisivo,
ma che allo stesso tempo frequenta, sostenuto da una indiscutibile ambizione letteraria,
altri territori del narrare.
In A ferro e fuoco Chaves è senz’altro più scrittore che giornalista
e, pur sostenendo che ogni storia si ispira a un fatto vero, per raccontarla ricorre
a tutte le armi della letteratura, avvince il lettore con una prosa asciutta, quasi
alla Hemingway, esibisce una notevole cura per il linguaggio, ricorre a dialoghi
che riproducono fedelmente la parlata popolare, semina immagini folgoranti, disegna
paesaggi con pochi ed efficacissimi tocchi e non scorda di aver prodotto a suo tempo
anche una sorta di romanzo popolare e sentimentale, La bolchevique enamorada
(El amor en la Rusia roja), pubblicato a puntate sulla rivista Estampa.
E, soprattutto, ci stupisce per la sua modernità, grazie a quell’abile intreccio
tra fiction e non fiction che sembra una caratteristica fondamentale della narrativa
contemporanea e che fa di lui un esponente ante litteram della crónica,
genere trasversale oggi intensamente praticato e di origini più remote di quanto
si tenda ad ammettere.
Quello che i suoi esegeti non mancano di mettere in risalto è il punto di vista
relativamente insolito, in seno alla grande narrazione della guerra civile, di qualcuno
che si dichiara estraneo a entrambe le parti, per lui accomunate da una medesima
barbarie, e che nel prologo dà conto dei motivi di quella che potrebbe sembrare
una fuga: “Antifascista e antirivoluzionario per temperamento, mi rifiutavo sistematicamente
di credere nelle virtù salvifiche della grandi sollevazioni e aspettavo lavorando,
fiducioso nel corso fatale delle leggi dell’evoluzione. Ogni rivoluzionario, con
il dovuto rispetto, mi è sempre sembrato deleterio come qualsiasi reazionario.
[…] Nella mia diserzione pesava tanto il sangue sparso dagli squadroni di assassini
che seminavano il terrore rosso a Madrid quanto quello versato dagli aerei di Franco,
che hanno ammazzato donne e bambini innocenti”.
Questa dichiarazione non tanto di equidistanza, ma di visione della guerra civile
in linea con le convinzioni di un “piccolo borghese liberale, cittadino di una repubblica
democratica e parlamentare” (così si autodefinisce Chaves nel prologo) e con quelle
della minoranza liberale che comunque aveva creduto nella Repubblica e le era rimasta
fedele, è stata usata da alcuni (e in particolare da Trapiello) per fornire sostegno
alle tesi sull’esistenza di una “terza Spagna”, cioè di una maggioranza silenziosa
e impotente trascinata, lo volesse o no, in un cruento scontro fratricida da due
minoranze fanatiche, due “opposti estremismi” votati a ideologie diverse ma speculari
e identicamente totalitarie. Di questa terza Spagna (della quale, non dimentichiamolo,
tentò di accreditarsi come rappresentante e interprete il primo Aznar, quello degli
anni ’90), Chaves Nogales rischia oggi di trasformarsi in una sorta di santino o
di bandiera, forse al di là del suo disagio di fronte agli eccessi di entrambe le
parti e della sua speranza delusa in “… uno Stato in cui sia possibile la convivenza
umana tra cittadini di idee diverse e la normale relazione con gli altri stati”.
Attorno ai racconti di A ferro e fuoco, e soprattutto al citatissimo prologo,
si è così sviluppata una polemica che, pur riconoscendo l’interesse oggettivo e
il valore dell’opera, ne ha criticato vivacemente la lettura in chiave apertamente
revisionista fatta da Trapiello e altri, e che traspare anche nel “corto” El
hombre que estaba allí realizzato nel 2013 da Daniel Suberviola e Luis Felipe
Torrente e dedicato alla vita e all’opera del giornalista.
Tra i tanti che hanno polemizzato con quello che Antonio Muñoz Molina ha definito
chavesnogalismo, ci sono anche il critico José Luis García Martín, che non
ha mancato di sottolineare le inesattezze e le contraddizioni del famoso prologo,
e lo storico Francisco Espinosa Maestre, che ha dedicato una lunga e puntuale analisi
a Chaves Nogales e all’uso che si è fatto di alcuni dei suoi scritti, per “offrire
una visione negativa e caotica della Repubblica e farci credere che la guerra, in
cui tutti furono uguali, fu inevitabile”. E, nell’accingersi a leggere A ferro
e fuoco, queste parole vanno costantemente tenute presenti, non solo perché
rivelatrici delle molte difficoltà che continuano ad accompagnare il recupero della
“memoria storica” nella Spagna di oggi, ma anche perchè aiutano il lettore di oggi
a collocare i testi di Chaves Nogales nel loro contesto, evitando travisamenti e
strumentalizzazioni.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel giugno del 2015