Victor Català |
Victor Català, uno scrittore en travesti
Non sono poche le scrittrici che, nel corso del tempo, hanno scelto per le più
diverse ragioni uno pseudonimo maschile; nel caso di Caterina Albert i Paradìs,
nata sulle coste della Catalogna nel 1869, la ragione e l’occasione per trasformarsi
in Victor Català vennero dallo scandalo suscitato da La infanticida, un suo
monologo premiato a Olot nel 1898, durante il certamen dei Joc Florals: davvero
era stata una ragazza di provincia, figlia di un noto possidente e deputato repubblicano,
a scrivere quel testo violento, quasi feroce, in cui una giovane contadina narrava
l’uccisione della figlia partorita in segreto, dopo una gravidanza nascosta agli
occhi dei familiari? E chissà cosa avrebbero pensato i giudici, se avessero saputo
che, prima di mettersi a scrivere, la coscienziosa signorina Albert si era informata
presso un mugnaio sulle possibilità di sopravvivenza di un neonato, in caso lo gettassero
nella gora del mulino.
Da quel momento in poi, Caterina Albert decise di adottare un nom de plume
che l’avrebbe accompagnata e in un certo senso protetta per il resto della sua lunga
“doppia vita” (se ne sarebbe andata, quasi centenaria, nel 1966): quella di signorina
borghese che dopo la morte del padre si assunse l’onere di amministrare terre e
beni, da vero capofamiglia, e quella di autrice che tra il 1901 e il 1950 produsse,
sia pure con lunghi intervalli di silenzio, due raccolte di versi, vari monologhi
teatrali, dieci volumi di racconti e due romanzi, uno dei quali, Solitud,
viene considerato una pietra miliare tanto della letteratura catalana quanto dell’eterogenea
corrente modernista che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, trasformò
profondamente l’architettura, la letteratura e l’arte della Catalogna, finendo per
inglobare istanze autonomiche e indipendentiste ben più esplicite di quelle accennate
pochi anni prima dal cosiddetto Rinascimento catalano, volto soprattutto al recupero
e al “restauro” di una lingua maltrattata.
Di Solitudine (Elliott, pag. 231, e. 18,50) – apparso a puntate nel 1904
su una delle principali riviste del Modernisme e poi in volume nel 1905,
e proposto in Italia dall’editore Carabba nel 1918 – esce ora una bella traduzione
di Ursula Bedogni, uscita vincitrice dalla battaglia con un testo quanto mai impegnativo,
ricco di espressioni dialettali, barbarismi, ripetizioni, frasi sincopate che cercano
di riprodurre il catalano rurale. Ci viene così restituita la possibilità di conoscere
un classico che va senz’altro collocato in un preciso contesto culturale, storico
e sociale per poterlo apprezzare in ogni suo aspetto, ma che si offre alla lettura
innanzitutto come un romanzo costruito con estrema sapienza, una sorta di grandioso
e frammentato poema in prosa dominato dalle descrizioni di paesaggi vertiginosi
e fondato su immagini di una tale forza evocativa (indimenticabile quella della
cappella traboccante di sinistri ex voto, sovrastati dalla statua grottesca di un
santo panciuto e irridente) da indurci a ricordare che Albert/Català fu anche una
pittrice di notevole bravura.
Cresciuta in una piccola città della Costa Brava, L’Escala, ed educata in casa
come molte ragazze dell’epoca – aveva frequentato solo le elementari – Caterina
riuscì comunque a respirare l’aria del tempo grazie alle risorse e all’incoraggiamento
di una famiglia colta e attenta, e non è certo in errore chi la colloca nell’orbita
del Modernisme, al quale la avvicinarono preoccupazioni etiche ed esigenze
di rinnovamento estetico, il catalanismo respirato in famiglia, e infine la capacità
di cogliere le nuove tensioni tra individuo e società, scatenate, in Catalogna più
che in altre parti della Spagna, dall’industrializzazione e dall’espansione urbana.
L’ansia modernizzatrice della borghesia, che da una parte guardava all’Europa e
dall’altra si identificava sempre di più con le rivendicazioni del nazionalismo
catalano, cresceva di pari passo con la partecipazione politica della classe operaia,
orientata verso idee socialiste ed anarchiche, ed entrambe formavano un energico
contrasto con quell’arcaico mondo contadino osservato con attenzione dal consistente
filone ruralista del Modernisme, spesso in cerca di miti autoctoni
e di una sorgente linguistica remota e pura, come nel caso di Joan Maragall, massimo
poeta catalano dell’epoca, che con Caterine Albert intrattenne una lunga e vivace
corrispondenza fitta di discussioni e disaccordi.
Ma il ruralismo di Victor Català, come del resto quello di altri romanzieri
modernisti (per esempio Raimon Casellas o Prudenci Bertrana) era ben più crudo e
pessimista di quello del poeta Maragall, e lo dimostrano gli straordinari racconti
di Drames rurales, del 1902, e soprattutto Solitudine: testi che non
hanno nulla di idilliaco o romantico, attraversati da follia, violenza, crudeltà,
delitti, stupro, paura. Quella di Mila, giovane protagonista del romanzo sposata
quasi per inerzia con Matias, un uomo da poco che la porta a custodire un eremo
sperduto fra le montagne, con l’unica compagnia di un pastore, un bimbetto e un
vecchio cane, è una storia drammatica, raccontata con durezza e vigore: un’acquaforte
piena di ombre e di simboli, che va oltre il realismo e il naturalismo per narrare
l’avventura interiore di una donna toccata “dalle infiltrazioni della solitudine”,
una solitudine scelta e non subìta, da cui attingere la forza necessaria per liberarsi
dai lacci di una vita a due umiliante e mortifera. E il rapporto di Mila con il
paesaggio che la circonda e che allo stesso tempo è “dentro” di lei – all’inizio
creatura passiva e mossa solo da brandelli di pensiero, intimorita dalla grandiosa
e mutevole visione delle montagne, e poi via via chiamata a ricongiungersi con una
se stessa che ignorava –, diventa allora un viaggio iniziatico verso la consapevolezza,
irto di prove da superare e di incontri dolorosi, ma anche di scoperte vitali.
È interessante notare che da Solitudine e dai Drames rurales (racconti
invariabilmente abitati da coppie infelici) emerge una cupa visione del matrimonio
come contratto stipulato a sfavore della donna, se non a suo danno: e non è un caso
che l’unico personaggio maschile positivo del romanzo, contrapposto a Matias e al
ferino vagabondo chiamato l’Anima, sia il pastore (“padre” di tutti, fonte inesauribile
di storie, fiabe e saggezza), che in memoria della moglie perduta non sarà mai marito
o amante di nessuna, ma che per Mila diventa guida e sostegno. Ben consapevole di
quanto difficile e ingiusta fosse la condizione femminile, la signorina Albert non
scriveva testi educatamente femministi come quelli delle sue contemporanee Dolors
Monserdà e Carmen Karr, animate da una vocazione umanitaria e pedagogica che intendeva
“indirizzare al bene” le donne delle classi inferiori; dalla sua letteratura, però,
affiora un femminismo ben più radicale che evoca piuttosto, come suggerisce Francesco
Ardolino nella prefazione, la Nora di Casa di bambola (Ibsen, del resto,
fu molto amato dal Modernisme) o la Sibilla Aleramo di Una donna.
Ma le possibili letture di Solitudine sono molte e destinate a cambiare
ulteriormente con il tempo e con i punti di vista (è sempre Ardolino a far presente
che quelle più recenti mirano a “inserire l’opera all’interno della cornice del
romanzo gotico”); non cambia, invece, la certezza di trovarsi di fronte a una autentica
obra maestra che può stare alla pari con i più grandi romanzi del ’900, e
il cui recupero merita la massima attenzione.
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’agosto del 2015