È il cinque aprile del 1976, e una bambina dorme tranquilla nella sua stanza,
a Buenos Aires. Quando è andata a letto ogni cosa era al suo posto: i giocattoli,
i libri, le porte chiuse, il silenzio notturno. Al risveglio, però, scoprirà che
i suoi non ci sono più: è dunque successo quello che si temeva da quando i militari
hanno preso il potere, e che, nelle conversazioni sussurrate degli adulti, i più
piccoli hanno sentito chiamare il Peggio?
Incappucciati e portati via su una delle Ford Falcon verdi usate per i sequestri
di regime, i genitori non riappariranno mai più, e a poco a poco questa assenza
declinerà verso la certezza della loro morte: ma adesso la bambina vuole credere
che torneranno, e si prepara a resistere. Sarà, in segreto, una combattente montonera,
istruirà il fratellino perché diventi il suo compagno di lotta, e in casa degli
zii (due comunisti per i quali non esistono “né Dio né Perón”), tra una nonna paterna
che non smette di piangere e di guardare dalla finestra, e una materna che porta
scarpe enormi e dice cose insensate, vivrà una vita fatta di segreti, finzioni,
lampi di memoria, solitudine, perdite che sembrano replicare all’infinito quella
dei genitori.
Il suo è un percorso doloroso, ma non privo di umorismo e a suo modo eroico,
in cui affiorano slogan politici pronunciati con ingenuità quasi commovente (segno
di estrema e romantica fedeltà agli scomparsi), e brandelli della cultura popolare
dell’epoca: il tutto abilmente narrato, attraverso un monologo interiore fresco
e scorrevole, in Piccoli combattenti, terzo romanzo dell’argentina Raquel
Robles pubblicato nel 2013 e appena uscito presso Guanda (pag. 155, e. 15).
L’autrice sa bene di che cosa parla, perché i pensieri, i ricordi, le sensazioni,
le esperienze della protagonista le appartengono completamente; Raquel è infatti
figlia dei desaparecidos Flora Pasatir e Gastón Robles (funzionario del Ministero
dell’Agricoltura durante il governo del peronista Héctor Campora), della cui sorte
non si è mai saputo nulla. Eppure Piccoli combattenti non è un’autobiografia,
ma un romanzo di formazione in cui le vicende e i tratti personali si fondono con
altri di pura invenzione, costruito con la libertà narrativa che è alla base di
un’ampia produzione culturale nata negli ultimi anni, quella dei figli dei desaparecidos.
Ed è toccato a loro, scrittori, cineasti, fotografi, teatranti, musicisti che interpretano
a modo proprio una memoria ineludibile, introdurre un nuovo modo di raccontare il
passato, ricorrendo a differenti strategie per riempire i mille vuoti della memoria
infantile e mettere in discussione i luoghi comuni ormai radicati nell’immaginario
nazionale.
Quella del desaparecido, infatti, è una figura che le rappresentazioni
ufficiali hanno sempre cercato di costringere entro i rigidi confini dello stereotipo,
semplificandola all’estremo. Da una parte, nel tentativo di fondare una memoria
condivisa da tutto il corpo sociale, la narrazione del Nunca Mas – il rapporto
che nel 1984 concluse l’indagine della CONADEP, la commissione di inchiesta sui
crimini della Giunta militare istituita dal governo Alfonsìn – ha affiancato una
serie di vittime considerate innocenti ad altre ritenute corresponsabili, mettendo
sullo stesso piano militanti e militari golpisti e dando credito alla teoria dei
dos demonios, ossia all’esistenza di due violenze equivalenti e contrapposte;
dall’altra la politica di Nestor e Cristina Kirchner (comunque la si pensi sul modo
in cui hanno governato l’Argentina, è a loro che si devono la fine dell’impunità,
i processi contro i responsabili e l’appoggio incondizionato alle organizzazioni
per i diritti umani), ha riorganizzato la memoria e l’ha resa funzionale alla creazione
e al controllo del consenso, trasformando i desaparecidos in altrettanti
eroi e martiri da collocare su un irreale piedistallo. A fronte di questa immagine
idealizzata e monolitica, l’arte e la letteratura dei figli propongono presenze
vive, complesse e contradittorie, a partire da un intenso desiderio di conoscere
e riconoscere i propri padri come esseri umani, come militanti le cui scelte politiche
possono o meno essere condivise, e infine come i genitori che non hanno potuto essere
e che vanno perdonati per la loro assenza e per il senso di abbandono che ha generato.
Nessuno dei figli, va sottolineato, sceglie la via della pura testimonianza,
ampiamente adottata dalla precedente generazione, che a volte ne ha fatto un uso
fin troppo ideologico e retorico; quello di cui parlano, del resto, è un passato
vissuto in modo parziale, attraverso ricordi imprecisi e vaghi, parole altrui, vecchie
foto, oggetti recuperati. Un passato visto con gli occhi del presente e impossibile
da testimoniare, che si può proporre solo come racconto e che in quanto tale manifesta
esigenze estetiche dagli esiti spesso sorprendenti.
Accanto a romanzi d’infanzia graziosi ma tutto sommato convenzionali come La
casa dei conigli di Laura Alcoba (che scrive in francese, la lingua del paese
dove l’ha portata l’esilio), in cui una voce di bambina racconta clandestinità e
dittatura, e alla autofiction di Quién te creés que sos? di Angela Urondo,
figlia di Paco, famoso intellettuale e poeta montonero, troviamo infatti
testi come quelli di Félix Bruzzone – i suoi erano militanti dell’Ejercito Revolucionario
del Pueblo – che, al di là dei racconti riuniti in 76e di due romanzi bizzarri
e dall’impasto linguistico audace, Las Chanchas e Barrefondo, nel
suo Los topos affronta il tema dei desaparecidos in modo alquanto
insolito, inserendolo in una vicenda vorticosa e vagamente allegorica che include
travestiti, prostituzione, maschere sovrapposte e nuove sparizioni, visto che il
protagonista cancella la propria identità attraverso il cambiamento di sesso.
E altrettanto inconsueto appare Soy un bravo piloto de la Nueva China
di Ernesto Semán, che alterna il realismo a elementi fantastici e gotici e intreccia
la storia del protagonista – come lui figlio di un dirigente del gruppo Vanguardia
Comunista – alle voci del genitore sequestrato e del suo torturatore, impegnati
in un dialogo fantasmatico: un romanzo notevole, che discute dolorosamente la relazione
padre-figlio, la scelta di sacrificare gli affetti alla politica, le illusioni della
militanza anni ’70, e finisce per rivendicare una riconciliazione con la figura
paterna e con il suo dignitoso coraggio. Un’opzione, questa, impossibile per un
altro personaggio del romanzo, ossia il figlio del torturatore, che, pur di liberarsi
della sua pesante eredità, alla fine ucciderà il padre.
L’esempio più curioso della narrativa dei figli rimane però il Diario de una Princesa Montonera – 110% Verdad di
Mariana Eva Pérez, collage di frammenti tratti da un blog che nel 2012 è diventato
libro e che si presenta come il racconto delle avventure di una maliziosissima Alice
nella “Disneyland dei Droits de l’Homme”, cioè l’Argentina dei Kirchner,
dove la sparizione e la morte dei militanti equivalgono alla fondazione di un vero
e proprio lignaggio capace di garantire ai figli visibilità, privilegi e perfino
incarichi di governo. La chiave scelta da Pérez è quella dell’umorismo nero e irriverente,
un filo che corre tra personaggi caricaturali, sberleffi alle regole imposte dalla
politica della memoria e continue citazioni degli altri figli e delle loro opere,
quasi a comporre una rete solidale o l’emblematico ritratto di una generazione. Accanto agli scrittori, ecco poeti come Juan Aiub e Julián Axat,
creatori di una collana che accosta i versi di poeti desaparecidos a quelli
dei loro figli; e poi registi come Nicolás Prividera, che in M ha tentato
di ricostruire gli ultimi mesi di vita di sua madre (un film bellissimo, inquietante
e provocatorio), o come Albertina Carri, che con il suo suggestivo documentario
autobiografico Los Rubios, del 2003, è stata una dei primi hijos a
venire alla ribalta; né manca la fotografia, rappresentata da Lucila Quieto, che
compone una Arqueologia de la ausencia inserendo nelle vecchie foto dei genitori
perduti le immagini dei figli, affiancandole o sovrapponendole, come fantasmi in
bianco e nero, a un padre sequestrato e mai conosciuto, a una madre che tiene in
braccio una neonata.
Politicamente scorretto quanto e più del romanzo di Bruzzone, scritto in una
lingua volutamente gergale, fitta di abbreviazioni e giochi di parole, il Diario
di Mariana Pérez (che è nipote della vicepresidente delle Abuelas di Plaza de
Mayo, e per questo si presenta burlescamente come Principessa), tra tutti i libri
dei figli è il più difficile da classificare, ma non da interpretare. Sarcastico,
eccessivo, a volte irritante, sempre irrispettoso e a volte scarsamente comprensibile
per chi non conosca a fondo la realtà argentina, va considerato un tentativo di
scardinare il discorso ufficiale e di sottrarsi alla retorica, all’imposizione della
memoria e alla sua trasformazione in abitudine o vuota celebrazione. In definitiva,
un rifiuto dell’identità che, tra passato e presente, altri hanno disegnato, e allo
stesso tempo la speranza di trasformare una pesante eredità in qualcosa di proprio,
in un pezzo di futuro.
Questo articolo è stato pubblicato su pagina99 nel gennaio del 2016