Marcos Ana |
La casa senza chiavi di Marcos Ana
Il 24 novembre il Partido Popular spagnolo ha seppellito Rita Barberá, per ventiquattro
anni onnipotente sindaco di Valencia, che, implicata in una grave trama di corruzione
e imputata di riciclaggio, è stata colpita da un infarto improvviso. E mentre Rajoy
e tutto il PP lamentavano il “linciaggio” e la “condanna a morte” da parte delle
“iene” (ossia i giudici, l’opposizione e i media), di una “donna generosa, una persona
eccellente”, quasi nelle stesse ore se n’è andato in silenzio qualcuno che di Rita
Barberá era l’opposto, che ha rappresentato con straordinaria dignità un’altra Spagna
e che, in un mondo in cui la memoria è ormai smaterializzata, ridotta a pura convenzione
celebrativa, continuava a incarnarla con un vigore capace di fonderla al presente
e di restituirle senso. Se n’è andato a novantasei anni, il 24 novembre, Fernando
Macarro Castillo, meglio noto come Marcos Ana, il nome con cui firmava i suoi versi:
un militante comunista rimasto tenacemente tale, un poeta di valore, nonché il prigioniero
politico rinchiuso più a lungo nelle carceri franchiste, dov’era entrato a diciannove
anni per uscirne a quarantadue.
Figlio di poverissimi braccianti della zona di Salamanca, durante la guerra
civile riuscì ad arruolarsi nell’esercito repubblicano, che lo rispedì a casa non
appena scoperta la sua età (sedici anni), e poco dopo entrò nel Partito Comunista,
diventando l’istruttore politico della Gioventù dell’Ejercito del Centro,
almeno finché la Repubblica non venne sconfitta e gli italiani della Divisione Littorio
lo fecero prigioniero. Accusato di omicidi che non aveva commesso, condannato a
morte due volte e graziato perché minorenne, si ritrovò con sessant’anni di carcere
da scontare, tra fame, torture e pestaggi. E fu in prigione che si trasformò in
Marcos Ana, unendo il nome di suo padre, scomparso sotto le bombe, a quello della
madre, morta subito dopo la seconda condanna del figlio. Con questo pseudonimo firmava
i versi che aveva cominciato a scrivere di nascosto e che inviava all’esterno tramite
i compagni rilasciati, che spesso li imparavano a memoria per non farsi trovare
addosso quei pezzi di carta compromettenti.
In carcere, insieme ai compagni aveva creato una sorta di giornaletto clandestino,
e con loro leggeva e discuteva libri quasi sempre proibiti (perfino il Don Chisciotte
lo era), ottenuti fortunosamente. In quegli anni durissimi divenne, lui che a scuola
c’era andato ben poco, un poeta amato da Alberti e da Neruda, che insieme ad Amnesty
International si batterono per la sua liberazione, arrivata infine dopo ventitré
anni. La libertà, però, Marcos dovette viverla in esilio fino alla morte di Franco,
viaggiando da un paese all’altro, continuando a lavorare per il partito e a scrivere,
aggiungendo ai suoi Poemas desde la carcel (pubblicati in Brasile nel 1960),
altre raccolte di versi, e soprattutto uno splendido libro di memorie, Decidme cómo es un árbol. Memoria de la prisión y la vida (2007), di cui esiste anche una versione italiana a cura di Chiara de Luca (Crocetti
2009), e i cui diritti sono stati comprati da Almodovar, deciso a farne un film.
Si sa che, quando parlava della sua età, Marcos Ana usava ringiovanirsi,
ma non per civetteria: sottraeva ai suoi anni quelli trascorsi in prigione. E giovane,
tutto sommato, era davvero, come sanno i ragazzi spagnoli che l’hanno incontrato
il quindici maggio 2011 alla Puerta del Sol, nei cortei, durante gli scioperi e
le manifestazioni. È per quei ragazzi che Marcos ha scritto Vale la pena luchar,
un piccolo libro del 2013 che non è un testamento, ma una trasmissione di esperienza
e un atto di fiducia. Ed è soprattutto per loro che la porta della sua casa era
sempre aperta: in prigione aveva scritto, tanti e tanti anni fa, che “se un giorno
esco alla vita/la mia casa non avrà chiavi”.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016