Roque Larraquy |
Il bestiario spettrale di Roque Larraquy
È nel 1911 che Severo Solpe, fotografo della buona società di Buenos Aires,
ritrae il fantasma di una scimmia fluttuante in una sala operatoria abbandonata:
ma la foto è fasulla, scattata su richiesta di un senatore burlone, e l’animale,
vivo e sedato, è semplicemente appeso al soffitto. Il trucco ha un tale successo,
però, che Solpe lo ripete a grande richiesta, finché, per puro caso, incappa nell’autentico
spettro di un’anatra che si aggira nel parco. Nasce così “la tecnica della fotografia
ectoplasmatica o ectografia animale”, oggetto delle ricerche che Solpe porterà avanti
per tutta la vita, fondando la Società Ectografica Argentina e collezionando le
immagini di un bestiario spettrale senza precedenti né paragoni: collezione immaginaria,
ovviamente, com’è immaginaria l’ectografia, spiegata con minuzia in Rapporto
sugli ectoplasmi animali di Buenos Aires (Gallucci, traduzione di Ilide Carmignani
ed Edoardo Balletta, pag. 86, e. 8,50) di Roque Larraquy, autore nel 2010 del sorprendente
La comemadre, in cui sono già evidenti alcuni dei temi di questo suo secondo
e frammentario quasi-romanzo.
A partire da un peculiare interesse per le pseudoscienze – intrise di pensiero
magico e spesso vicine alle passioni esoteriche della destra estrema – che ancora
fiorivano alle soglie del XX secolo, nei ventitré brevi capitoli di questo catalogo
surreale, dalle sfumature comiche e inquietanti, Larraquy elabora un discorso sulla
morte e sul corpo, manipolato e sezionato, violato o cancellato, ridotto a residuo
di cui disfarsi o a insopprimibile traccia materica e immortale, e fa scivolare
altre ombre, quelle che infestano l’Argentina e la sua storia, fra gli ectoplasmi
dei pesci che nuotano nell’aria, dei cavalli che galoppano al rovescio (corpo inghiottito
dal terreno, zampe all’aria), dell’anatra maligna che razzola nel ristorante dove
è stata uccisa e cucinata.
L’esercito spettrale degli animali sacrificati, divorati, morti per caso, per
necessità o per gioco, si fa dunque metafora o specchio, ci assedia in nome di presagi
e di memorie. La marinaresca scimmia albina che nel dicembre del 1939 fugge da una
nave all’ancora nel porto di Montevideo, per poi morire nel campanile di una chiesa,
non verrà forse dall’incrociatore tedesco Graf Spee, rifugiatosi là dopo la battaglia
del Rio de la Plata contro due navi inglesi? E l’occhio di una signora che, nel
settembre del 1955, viene avvolto dall’ectoplasma di un uovo con dentro un feto
di pollo, c’entra qualcosa con il colpo di stato in corso proprio allora contro
Peròn? Quanto al fantasma del gatto Saki, insediato in cima a un albero nel 1953,
come mai non vuole più muoversi di lì? Sa, magari, che in Plaza de Mayo scoppieranno
due bombe durante una manifestazione sindacale?
Questa memoria trasversale, il cui luccichio ectoplasmatico è appena visibile
anche a uno sguardo attento, acquista evidente sostanza negli ultimi capitoli del
libro, dedicati alle pagine del diario di Solpe e alle assurde lettere da lui scritte
al senatore Dubarry, per chiedergli riconoscimento e appoggio. Alle descrizioni
di complessi sciami spettrali, agglomerati di ectoplasmi bellissimi ma aggressivi,
che Solpe alterna a imbarazzanti confidenze coniugali, fa infatti da sfondo il golpe
che nel 1930 depose il presidente Yrigoyen e diede inizio alla cosiddetta Década
Infame, cupo decennio di crisi economiche e dittature militari. Ma a turbare l’ectografo
non sono il destino del paese o le manifestazioni di piazza: è piuttosto il chiasso
che sale dalla strada e infrange la quiete del suo laboratorio, dove agli animali
in gabbia sono state recise le corde vocali, perché non si lamentino mentre muoiono
di inedia (solo una morte dolorosa garantisce ectoplasmi perfetti). Incapaci di
percepire la crudeltà e la violenza esterne, delle quali la Società Ectografica
è una minuscola immagine speculare, i suoi adepti appaiono ridicolmente ciechi alla
realtà del mondo, consacrati come sono a ricerche insensate, e Solpe, vera caricatura
di se stesso, diventa il modesto presagio di un futuro in cui la rete farà da sconfinata
cassa di risonanza a innumerevoli, illusorie, sempre più inquietanti pseudoscienze
nuove di zecca.
Con un linguaggio asciutto e preciso, fintamente tecnico, che però trasuda robusto
humour nero e allontana qualsiasi riferimento a ogni tipo di mitologia gotica, imparentandosi
piuttosto con la più rarefatta science fiction, Larraquy costruisce figure
così stilizzate e un testo così rigoroso e insieme bizzarramente poetico, da far
pensare a un redivivo Juan Emar (leggendario scrittore cileno del quale ci si aspetta
una prossima edizione italiana), e dimostra di possedere una voce di insolita riconoscibilità,
usata con grande sicurezza. L’identica sicurezza che sembra esibire l’illustratore
di queste paginette levigate e stranianti, ovvero Diego Ontivero, rifiutandosi di
commentare visivamente il racconto, per spiazzare il lettore con immagini geometriche
dai colori desaturati, realizzate al computer: forme piatte e misteriose che, tra
allusioni al cubismo e al costruttivismo russo, danno un ultimo tocco prezioso all’elegantissimo
volumetto.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016