Mariana Enriquez |
Mariana Enriquez, o del gotico contemporaneo
Mariana Enriquez, ragazza di provincia cresciuta tra Lanus e Mar del Plata,
aveva ventun anni quando il manoscritto del suo primo romanzo finì per caso nelle
mani Juan Forn, dell’Editorial Planeta, che nel 1994 decise di pubblicarlo,
puntando sui contenuti “forti” di un testo in cui i bassifondi di Buenos Aires facevano
da sfondo a furibonde scene di sesso e disperati amori omosessuali, tra fiumi di
droga e sinistre allucinazioni. Se la critica rimase perplessa davanti a pagine
che fanno pensare un po’ a Poppy Z. Brite e un po’ ai tenebrosi parafernalia ammucchiati
nella cameretta di un’adolescente dark, il successo di pubblico non mancò, e l’attenzione
dei media neppure: TV e giornali parlarono fin troppo della “più giovane scrittrice
argentina”, considerata un “caso” piuttosto che una promessa della letteratura.
Chissà che i successivi dieci anni di silenzio dell’autrice non abbiano qualcosa
a che fare con il disagio provocato da quella repentina sovraesposizione mediatica;
ma può anche darsi che Mariana Enriquez abbia semplicemente deciso di prendersi
il tempo necessario per vivere, sperimentare, lavorare (giornalista, è oggi co-responsabile
del supplemento libri del quotidiano Pagina/12), insomma per crescere. E
infatti il suo secondo libro, Cómo desaparecer completamente, uscito nel
2004, appare ben più meditato: un romanzo di formazione in cui un sedicenne cerca,
tra abusi segreti e mostruose figure familiari, una via di uscita forse impossibile.
Da allora Enriquez non si è più fermata, producendo un libro di racconti, un romanzo
breve, un’eccellente biografia di Silvina Ocampo, una raccolta di crónicas
e soprattutto i dodici cuentos di Las cosas que perdimos en el fuego (titolo
mutuato da una canzone dei Low), che ne conferma la raggiunta maturità e che è in
via di traduzione in una ventina di lingue.
Proprio quest’ultimo libro, tradotto da Fabio Cremonesi, arriva oggi ai lettori
italiani (Le cose che abbiamo perso nel fuoco, Marsilio, pag. 208, e. 16,50),
ai quali Caravan – piccola casa editrice sempre alla ricerca di nuovi autori per
la sua ottima collana “Bagaglio a mano” – aveva già offerto nel 2014 l’occasione
di conoscere Mariana Enriquez grazie ai tre racconti riuniti in Quando parlavamo
con i morti, e che ha da poco pubblicato anche le sue affascinanti cronache
di viaggio, in cui realtà urbane differenti vengono ritratte attraverso i
rispettivi cimiteri (Qualcuno cammina sulla tua tomba, pag. 288, e. 13,50,
traduzione di Alessio Casalini).
Accompagnato da critiche positive e spesso illustri, come quelle di Beatriz
Sarlo o Edmundo Paz Soldán, Le cose che abbiamo perso nel fuoco ripropone
le ossessioni che connotano Enriquez sin dall’esordio, confermando la sua abilità
nell’usare personaggi e scenari orrorifici come pretesto per avvicinarsi in modo
indiretto e metaforico a questioni come la disuguaglianza sociale, l’ultima dittatura,
la crisi economica durante le presidenze di Alfonsìn e Menem, il conflitto tra i
sessi. Ed è innegabile che a differenza dei primi romanzi, cupi e violenti ma sostanzialmente
realistici, gli ultimi racconti (come pure quelli di Los peligros de fumar en
la cama, uscito nel 2009 e appena riedito da Anagrama) siano interni a un gotico
contemporaneo con minimi tocchi di paranormale, che riesce a passare dal “perturbante”
più impalpabile (secondo Freud, “quella sorta di spaventoso che risale a quanto
ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, e per nulla estraneo alla migliore
tradizione letteraria argentina) al gore più esplicito. Ma confinare Enriquez
all’interno di un solo genere sarebbe riduttivo: in realtà l’autrice ne attraversa
molti, dal noir al poliziesco, alludendo a materiali cinematografici, musicali e
letterari di ogni tipo, da Lovecraft e Shirley Jackson alla gloriosa “serie B” analizzata
da Stephen King in Danse macabre.
Allo stesso tempo, però, inquadra ogni storia in una quotidianità riconoscibile,
fatta di quartieri decaduti, di villas miserias, di vagoni del metrò e aule
scolastiche, di interni domestici e cittadine di provincia, di strade statali perse
nel nulla; una geografia desolata in cui si muovono emarginati senza speranze, borghesia
impoverita, immigrati, coppie infelici, famigliole malate e, primi fra tutti, bambini,
adolescenti, donne. È il loro sguardo, la loro immagine, la loro voce che Enriquez
ci restituisce: bambini perduti, ragazzine fragili, feroci e senza freni come capita
di essere in un’età fluida ed esplosiva, pronta a tutto; giovanissimi lumpen
affogati dai poliziotti per gioco e “perché sì”, che si trasformano in revenant;
bambine inghiottite da una casa in cui un’ordinata esposizione di denti e unghie
evoca certi quadri di Carol Rama… E poi le Donne Ardenti, pronte a tuffarsi in roghi
autogestiti, “streghe” che bruciano se stesse in segno di disobbedienza estrema
ed estrema protesta («Se continuano così, gli uomini dovranno abituarsi. La maggior
parte delle donne diventeranno come me, se non muoiono. Sarebbe bello, no? Una bellezza
nuova», dichiara in Tv una ragazza senza volto, che il marito ha cercato di bruciare
viva).
Il corpo bruciato, distrutto dalla droga o dalla povertà, ridotto a poche ossa,
sepolto o riaffiorante, pieno di sofferenza e desiderio, è uno dei temi su l’autrice
indaga più a fondo, rappresentandone la presenza/assenza, la torturata manipolazione;
corpi che alludono al fantasma di cui la generazione di Mariana Enriquez – bambina
durante la dittatura e cresciuta all’ombra di sospetti, paure, segreti – non può
liberarsi, ma anche a una violenza quotidianamente esercitata da un patriarcato
pronto a nuove incarnazioni (nei racconti, quasi tutte le figure maschili sono il
riflesso di una grigia misoginia), dal neoliberismo e dall’incertezza economica,
dalla miseria assoluta o dal terrore di esserne inghiottiti.
Storie gotiche, dunque, ma ad alta densità politica, che reinventano gli stereotipi
del genere fino a renderli trasparenti e a mostrare, dietro di essi, non tanto l’orrore,
quanto “delle vite orribili”, come ha suggerito l’autrice in un’intervista, raccontate
in una prosa diretta, limata, fatta di frasi brevi e precise, di tremenda efficacia
e non prive di ironia, che procedono verso un finale quasi sempre aperto, volutamente
irrisolto e inspiegato, così da aumentare abilmente il disagio di chi legge. Storie
scomode e irresistibili, storie argentine, ma anche, com’è ovvio, storie di tutti.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2017