domenica 11 giugno 2017

Da leggere: Laia Jufresa

Laia Jufresa


Umami, il quinto sapore

Bogotà39, ovvero trentanove scrittori sotto i quarant’anni scelti fra duecento candidati provenienti da quindici nazioni latinoamericane, per segnalare all’attenzione dei lettori e degli editori l’eccellente salute di letterature che possono contare, tra le altre cose, sull’esplosiva vitalità di una lingua dalle infinite varianti nazionali e locali. A dieci anni dalla prima edizione dell’iniziativa, che nel 2007 aveva segnalato nomi allora agli esordi e oggi molto noti, viene alla ribalta una nuova schiera di autori, e non c’è da stupirsi che la rappresentanza più numerosa sia quella del Messico, visto l’attuale stato di grazia della sua letteratura giovane, abitata da scritture molto diverse ma sempre promettenti: quelle degli ochentistas, cioè i nati negli anni ’80, che vanno inserendosi a poco a poco anche nel panorama internazionale.

Con una di queste scritture ci si potrà misurare nei prossimi giorni a Ivrea, che ospita il festival La Grande Invasione; tra gli ospiti, infatti, c’è anche Laia Jufresa, trentacinque anni e due libri al suo attivo: uno di racconti, El Esquinista, del 2014, e un primo romanzo, Umami, uscito nel 2015 e appena apparso in italiano per le edizioni Sur (pag. 247, e. 16,50). Un esordio recente quanto fortunato, il suo, grazie a una scrittura incantevole, solo in apparenza semplice e ricca di umorismo, invenzioni, giochi di parole, neologismi e “sapori” messicani, che la traduttrice Giulia Zavagna ha affrontato nel modo migliore, riuscendo a preservarne la sapienza e la fluidità.

A colpire è innanzitutto il titolo, che fa riferimento al “quinto sapore” dal nome giapponese, difficile da definire, ma capace di esaltare o variare gli altri quattro. Umami si chiama, nel romanzo, uno dei cinque villini (gli altri quattro sono Acido, Amaro, Dolce e Salato) che fanno parte del piccolo complesso La Campanaria, a Città del Messico, fatto costruire da Alfonso, antropologo specializzato nello studio dell’alimentazione pre-colombiana, sul terreno ereditato dai genitori nei lontani anni ’70: un microcosmo la cui esigua popolazione è al centro del racconto. Ma umami è, tutto sommato, riferibile anche al gusto sottile e sfuggente della prosa di Laia Jufresa (nome catalano, nazionalità messicana, adolescenza trascorsa in Francia, studi alla Sorbona e lunghi soggiorni in paesi diversi, dalla Spagna alla Germania), fatta di immagini brillanti e di riuscitissimi monologhi interiori, legati da fili tenui e robusti come ragnatele.

Ricca di sfumature e di dettagli minimi, la narrazione abbraccia un periodo di quattro anni (dal 2000 al 2004) ed è strutturata in capitoli che non seguono un ordine cronologico ma alternano tempi diversi, procedendo in un certo senso “al rovescio” e dando spazio a lacune che vengono via via colmate. E a cambiare ogni volta sono, oltre al tempo della storia, anche le voci narranti: Alfonso, il più anziano, profondamente segnato dalla perdita dell’adorata moglie Noella, portata via dal cancro dopo un lungo e felice matrimonio senza figli; l’adolescente Anna, figlia di una coppia di musicisti, che decide di dedicare un’estate alla coltivazione di una milpa, il tradizionale campicello dove crescono insieme zucca, mais e fagioli (quello del cibo, della sua produzione, preparazione e condivisione, come pure del suo rifiuto, è uno dei leit motiv del libro); Luz, la sorellina di Anna, l’unica che in tutto il romanzo ha sempre la stessa età (quasi sei anni) e parla da un eterno presente, perché è morta annegata in un lago nordamericano. Per raccontare Marina – giovane pittrice anoressica che vive nella casa Amaro e crea nomi pazzi per colori che nessun altro vede – e tutti gli altri, siano protagonisti o comprimari, viene invece utilizzata una terza persona attentissima al punto di vista dei differenti personaggi, a partire da Laura, la madre di Anna e Luz, e da Pina, ragazzina che, con il padre Beto, elabora faticosamente l’abbandono senza spiegazioni di una madre sventata. Una storia-puzzle, insomma, la cui polifonia appare perfettamente risolta e avvince fino all’ultima pagina, facendo emergere dal tema di fondo, quello della perdita e del lutto, un bisogno di consolazione che prende forme diverse e riesce a tingersi di una sotterranea allegria.

Umami è, in conclusione, un romanzo fatto non tanto di trama, quanto di voci e di caratteri, in primo luogo femminili (Alfonso, unico personaggio maschile in primo piano, è in realtà “parlato” da Noella, e sembra esistere soprattutto per darle la parola), messi a punto con un’abilità e una precisione sorprendenti, che disegnano diverse età della vita e rendono quasi tangibili corpi adolescenti che crescono e mutano, da esplorare e scoprire come fanno Anna e la sua amica Pina, corpi devastati dalla malattia, bloccati dal dolore oppure pieni di slancio, corpi di bambine e di donne che stringono fra loro relazioni solidali e vengono separati da inimicizie improvvise. Una foto di gruppo difficile da dimenticare, che induce a un pronostico: forse Laia Jufresa non è ancora una grande scrittrice, ma è molto probabile che lo diventi.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2017