Laia Jufresa
Umami, il quinto sapore
Bogotà39, ovvero trentanove scrittori sotto i quarant’anni scelti fra duecento
candidati provenienti da quindici nazioni latinoamericane, per segnalare all’attenzione
dei lettori e degli editori l’eccellente salute di letterature che possono contare,
tra le altre cose, sull’esplosiva vitalità di una lingua dalle infinite varianti
nazionali e locali. A dieci anni dalla prima edizione dell’iniziativa, che nel 2007
aveva segnalato nomi allora agli esordi e oggi molto noti, viene alla ribalta una
nuova schiera di autori, e non c’è da stupirsi che la rappresentanza più numerosa
sia quella del Messico, visto l’attuale stato di grazia della sua letteratura giovane,
abitata da scritture molto diverse ma sempre promettenti: quelle degli ochentistas,
cioè i nati negli anni ’80, che vanno inserendosi a poco a poco anche nel panorama
internazionale.
Con una di queste scritture ci si potrà misurare nei prossimi giorni a Ivrea,
che ospita il festival La Grande Invasione; tra gli ospiti, infatti, c’è anche Laia
Jufresa, trentacinque anni e due libri al suo attivo: uno di racconti, El Esquinista,
del 2014, e un primo romanzo, Umami, uscito nel 2015 e appena apparso in
italiano per le edizioni Sur (pag. 247, e. 16,50). Un esordio recente quanto fortunato,
il suo, grazie a una scrittura incantevole, solo in apparenza semplice e ricca di
umorismo, invenzioni, giochi di parole, neologismi e “sapori” messicani, che la
traduttrice Giulia Zavagna ha affrontato nel modo migliore, riuscendo a preservarne
la sapienza e la fluidità.
A colpire è innanzitutto il titolo, che fa riferimento al “quinto sapore” dal
nome giapponese, difficile da definire, ma capace di esaltare o variare gli altri
quattro. Umami si chiama, nel romanzo, uno dei cinque villini (gli altri quattro
sono Acido, Amaro, Dolce e Salato) che fanno parte del piccolo complesso La Campanaria,
a Città del Messico, fatto costruire da Alfonso, antropologo specializzato nello
studio dell’alimentazione pre-colombiana, sul terreno ereditato dai genitori nei
lontani anni ’70: un microcosmo la cui esigua popolazione è al centro del racconto.
Ma umami è, tutto sommato, riferibile anche al gusto sottile e sfuggente
della prosa di Laia Jufresa (nome catalano, nazionalità messicana, adolescenza trascorsa
in Francia, studi alla Sorbona e lunghi soggiorni in paesi diversi, dalla Spagna
alla Germania), fatta di immagini brillanti e di riuscitissimi monologhi interiori,
legati da fili tenui e robusti come ragnatele.
Ricca di sfumature e di dettagli minimi, la narrazione abbraccia un periodo
di quattro anni (dal 2000 al 2004) ed è strutturata in capitoli che non seguono
un ordine cronologico ma alternano tempi diversi, procedendo in un certo senso “al
rovescio” e dando spazio a lacune che vengono via via colmate. E a cambiare ogni
volta sono, oltre al tempo della storia, anche le voci narranti: Alfonso, il più
anziano, profondamente segnato dalla perdita dell’adorata moglie Noella, portata
via dal cancro dopo un lungo e felice matrimonio senza figli; l’adolescente Anna,
figlia di una coppia di musicisti, che decide di dedicare un’estate alla coltivazione
di una milpa, il tradizionale campicello dove crescono insieme zucca, mais
e fagioli (quello del cibo, della sua produzione, preparazione e condivisione, come
pure del suo rifiuto, è uno dei leit motiv del libro); Luz, la sorellina di Anna,
l’unica che in tutto il romanzo ha sempre la stessa età (quasi sei anni) e parla
da un eterno presente, perché è morta annegata in un lago nordamericano. Per raccontare
Marina – giovane pittrice anoressica che vive nella casa Amaro e crea nomi pazzi
per colori che nessun altro vede – e tutti gli altri, siano protagonisti o comprimari,
viene invece utilizzata una terza persona attentissima al punto di vista dei differenti
personaggi, a partire da Laura, la madre di Anna e Luz, e da Pina, ragazzina che,
con il padre Beto, elabora faticosamente l’abbandono senza spiegazioni di una madre
sventata. Una storia-puzzle, insomma, la cui polifonia appare perfettamente risolta
e avvince fino all’ultima pagina, facendo emergere dal tema di fondo, quello della
perdita e del lutto, un bisogno di consolazione che prende forme diverse e riesce
a tingersi di una sotterranea allegria.
Umami è, in conclusione, un romanzo fatto non tanto di trama,
quanto di voci e di caratteri, in primo luogo femminili (Alfonso, unico personaggio
maschile in primo piano, è in realtà “parlato” da Noella, e sembra esistere soprattutto
per darle la parola), messi a punto con un’abilità e una precisione sorprendenti,
che disegnano diverse età della vita e rendono quasi tangibili corpi adolescenti
che crescono e mutano, da esplorare e scoprire come fanno Anna e la sua amica Pina,
corpi devastati dalla malattia, bloccati dal dolore oppure pieni di slancio, corpi
di bambine e di donne che stringono fra loro relazioni solidali e vengono separati
da inimicizie improvvise. Una foto di gruppo difficile da dimenticare, che induce
a un pronostico: forse Laia Jufresa non è ancora una grande scrittrice, ma è molto
probabile che lo diventi.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2017