Juan José Saer
Juan José Saer. Una forma più reale di quella del mondo
Solo nel suo appartamento parigino, Pichón Garay aspetta l’amico di sempre,
Tomatis, in arrivo dall’Argentina, e intanto esamina un testo travasato in un floppy
disk da Marcelo Soldi, “topo d’archivio” venuto in possesso di un vecchio manoscritto
in cui si narrano le avventure di una carovana composta da un medico, cinque malati
di mente, qualche soldato e alcune prostitute, diretti alla clinica di Buenos Aires
che l’alienista Weiss ha consacrato al concetto di cura, rifiutando quello di pura
contenzione fisica della follia. È il 1804, l’Argentina non è ancora una nazione,
e nella pampa deserta, dominata da un cielo in cui corrono nuvole gigantesche, i
viaggiatori procedono tra deviazioni inspiegabili, sciagure, bizzarrie climatiche
e incontri ravvicinati con gli indios, puntualmente riferiti, trentacinque anni
dopo, dalla voce narrante del dottor Real… Così comincia Le nuvole (pag.
184, e. 16,50) di Juan José Saer, che La Nuova Frontiera presenta nella traduzione
di Gina Maneri, eccellente “voce” italiana di uno scrittore impegnato nella ricerca
di un’estrema perfezione formale e nella costante riflessione sulla natura della
realtà e sulle possibilità di raccontarla, ormai ritenuto un maestro “in qualsiasi
lingua”, come teneva a precisare Ricardo Piglia.
Scomparso nel 2005 a Parigi, dove si era trasferito nel 1968, Saer ha visto
pienamente riconosciuto il suo valore solo alla fine degli anni ’80, dopo un ventennio
di oscurità affrontato con regale noncuranza per le pretese del mercato e con assoluta
dedizione al proprio ambizioso progetto letterario, del quale aveva gettato le basi
già dall’esordio, avvenuto nel 1960 con i racconti di En la Zona, dove per
la prima volta si accenna a un luogo destinato a diventare il fulcro della sua opera:
Santa Fé, il Litoral, Entre Ríos (insomma la regione compresa tra i grandi fiumi
Paraná e Paraguay, dove lo scrittore era nato nel 1937), reale e allo stesso tempo
metafisico, perché “quel che vale per un posto vale per lo spazio intero, e sappiamo
che se il tutto contiene la parte, la parte a sua volta contiene il tutto”.
A popolare la Zona sono personaggi legati dall’appartenenza a un territorio,
dalla memoria comune, da una lingua amata, da passioni politiche e intellettuali
– un gruppo simile a quello riunito intorno al poeta Juan L. Ortíz, cui lo scrittore
rimase legato per tutta la vita –, che tornano da un testo all’altro con risalto
diverso, entrano ed escono, intrecciano vicende personali e collettive, propongono
questioni estetiche e filosofiche, lasciano spazio a lacune spesso colmate altrove,
come spiega l’autore in una delle rare interviste (raccolte di recente dal critico
argentino Martín Prieto nel volume Una forma más real que la del mundo, Editorial
Mansalva), accostando il suo “sistema” alla musica di Bach: “In lui troviamo un
sistema ben codificato, e all’interno di questo sistema c’è una serie di innovazioni,
di cambiamenti. In ogni ripetizione c’è qualcosa di nuovo. Così è nei miei libri.
(…) Per questo in essi appaiono elementi già apparsi nei precedenti, sempre accompagnati
da altri nuovi”.
Anche se alcuni testi sembrano in qualche modo uscire dallo spazio consueto
e spingere ai margini, o addirittura ignorare, i personaggi ricorrenti, la coerente
intertestualità saeriana viene comunque confermata da allusioni, citazioni, presenze:
El entenado (L’arcano, La Nuova Frontiera 2015), storia di un mozzo
spagnolo prigioniero degli indios Colastiné in epoca coloniale, si svolge appunto
nella Zona, e così pure La ocasión, ambientato nel 1870, che ha tra i protagonisti
l’antenato di Pichón Garay; La pesquisa (L’indagine, La Nuova Frontiera
2014), incursione nel genere poliziesco, sia pure ribaltato e parodizzato, comincia
a Parigi ma si conclude sulle rive del Paranà e, oltre alle abituali figure di Pichón,
Tomatis e Soldi, utilizza l’escamotage del manoscritto ritrovato, presente in diversi
romanzi della maturità di Saer, incluso Le Nuvole, che, secondo Beatríz Sarlo,
si presenta come un racconto “di avventure, di viaggio, di iniziazione, filosofico
e di caratteri”.
Come L’arcano e La ocasión, Le nuvole appare meno rarefatto
dei precedenti romanzi di Saer e, senza rinunciare a una vera e propria “musica
della prosa”, intensamente perseguita attraverso frasi dalla partitura complessa
e avvolgente, ne abbandona la studiata lentezza, sceglie una trama in cui non mancano
le peripezie e lascia affiorare, oltre a immagini magnifiche e quasi oniriche, un
umorismo esplicito. Insieme, i tre titoli sembrerebbero comporre una trilogia sul
passato e l’identità nascente di una nazione, ma sarebbe del tutto improprio considerarli
romanzi storici; nulla di più lontano dalle intenzioni dell’autore, che in un suo
saggio su “Zama”, la obra maestra di Antonio Di Benedetto, afferma perentoriamente:
“La pretesa di scrivere romanzi storici – o di leggerli – non fa che confondere
la realtà storica con l’immaginazione arbitraria di un passato perfettamente improbabile”.
In Le nuvole, Saer non cerca affatto di ricostruire un’epoca, anche se
rivela un’approfondita conoscenza dei cronisti e dei viaggiatori nell’America latina
del XIX secolo, nonché dei padri fondatori della letteratura argentina; il viaggio
della sua piccola “nave dei folli” nel mare della pampa è del tutto metaforico:
una perigliosa traversata dei territori della malattia mentale, il cui accesso è
negato ai “sani” dalla mancanza di un linguaggio condiviso. Ciascuno dei cinque
pazzi (la suora in preda a delirio erotico, i due fratelli che ripetono sempre le
stesse parole, il megalomane e logorroico Troncoso, il catatonico Prudencio) ha
il suo e lo esprime con il corpo e con la voce, fornendo a Saer un’ulteriore occasione
per assediare il concetto di realtà ed esplorare i problemi del narrare: la verosimiglianza,
la distanza tra le parole e le cose, la relazione tra il soggetto e il mondo, i
misteri della percezione.
Ragione e follia appaiono inestricabilmente connesse tra loro e con un potere economico e politico che non esita a definirle e a servirsene, nonostante sia difficile, in più di un momento, distinguerle l’una dall’altra. Una difficoltà che il dottor Real sperimenta in prima persona, quando, colto da un spaesamento profondo e scosso dal contatto intenso e prolungato con l’alterità dei folli, degli indios, degli animali, del paesaggio e perfino delle stagioni impazzite, rischia di perdere la cognizione di sé, in un luogo dove tempo e spazio non procedono in linea retta, ma hanno un andamento circolare, proprio come la narrazione di Saer, che nella prima parte del romanzo ci rivela le sorti finali dei due medici e dei loro pazienti. Ed è la sua voce a indicarci che l’autore, felicemente allergico al realismo magico e allo stilizzato fantastico borgesiano, in Le nuvole tenta ancora una volta di scardinare il reale, non per negarlo ma per misurarne la profondità, le crepe e le fratture, e forse per ricostruirlo nell’unico modo possibile, attraverso la letteratura.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel giugno del 2017