Adrián Bravi |
Diceva Juan José Saer che quasi tutta la letteratura argentina
del XIX secolo è stata scritta in esilio e dall’esilio, e lo stesso si può sostenere,
tutto sommato, a proposito di quella del secolo scorso e del nostro, così spesso
concepita sotto cieli diversi da quello nativo. Basterebbe ricordare i “parigini”
Cortazar, Bianciotti, Copi e lo stesso Saer; Tomás Eloy Martinez, prima rifugiato in Venezuela e in Messico,
poi professore per anni e anni a Rutgers; Juan Rodolfo Wilcock, che nel 1957 scelse
di stabilirsi in Italia… E l’elenco di chi se n’è andato – a volte per non tornare,
a volte per rientrare da semplice visitatore o per sempre – potrebbe essere infinitamente
più lungo, viste le dimensioni di una diaspora dalle motivazioni diverse e mai davvero
conclusa.
Accanto a coloro che, vivendo in un costante bilinguismo,
hanno continuato a scrivere nel castellano fedele alle peculiarità dell’idioma
argentino, c’è chi ha rinunciato alla lengua madre per adottarne un’altra:
il francese per Bianciotti e Copi, l’inglese e il francese per Sylvia Molloy, un
superbo italiano per Wilcock… E in italiano, dopo un romanzo d’esordio in spagnolo,
scrive dal 2004 anche Adrián Bravi, nato
a Buenos Aires, che venticinque anni fa ha affrontato in senso contrario il viaggio
compiuto dai suoi nonni due generazioni prima, per approdare ai luoghi (le Marche)
dai quali la famiglia era partita e a una lingua conosciuta solo attraverso il cocoliche
della nonna, quel misto di italiano e spagnolo degli antichi immigrati, abbastanza
vigoroso da infiltrarsi in certe pieghe della parlata e del teatro popolare argentini.
Bravi, con sei romanzi pubblicati da Nottetempo e un libro
di racconti, è oggi un autore affermato, che, invitato a Cordoba dal nostro Istituto
di Cultura, si è ritrovato paradossalmente a parlare in italiano a un pubblico ispanofono
e a ricevere un suggestivo ammaestramento da un anziano immigrato calabrese, pronto
a spiegargli che “lo spagnolo è una lingua bella e musicale, ma troppo gelosa: una
lingua che uccide tutto intorno a sé, perché vuol sempre prevalere sulle altre”.
Così, per la prima volta, all’autore è venuta l’idea di scrivere un libro su La
gelosia delle lingue, proprio quello che adesso, a qualche anno di distanza,
appare per le Edizioni Università di Macerata (pag. 180, e. 10): un testo diviso
in capitoli brevi, ma assai ricco sia di citazioni colte, sia di deliziosi excursus
autobiografici (i giochi nel giardino di un vicino di casa chiamato Ernesto Sabato;
la zia che, sul piroscafo per l’Argentina, finita l’acqua potabile allatta i bambini
assetati, senza riuscire a salvarli tutti), racchiusi nella “maternità” piena di
ricordi e di sotterranee correnti poetiche del castellano di un tempo, che
per Bravi è una lingua senza vecchiaia, così come l’italiano è e rimane una lingua
senza i colori e i sapori dell’infanzia.
Oltre ad esplorare il proprio percorso tra lo spaesamento
e il progressivo installarsi in un italiano amichevole e ospitale, che offre le
suggestioni dei dialetti e acconsente ad accogliere intonazioni, costruzioni, echi
della lengua madre, Bravi affronta i casi affini e diversi di scrittori che
hanno abbandonato la propria lingua per scrivere in un’altra percepita come imprendibile
e ostile (è il caso di Agota Kristoff), o della quale si servono per affrontare
nuove sfide stilistiche (ed è il caso Beckett o di Nabokov). Qualcuno, come Bianciotti
e Wilcock, vuole spogliarsi del passato, quasi fosse una placenta dalla quale si
emerge per rifondare la propria scrittura, e forse la propria vita; altri, come
Canetti e Anita Desai, scelgono una lingua per mettere ordine tra le molte che li
accompagnano sin dalla nascita. E c’è poi chi ha dei conti da regolare con una lingua
divenuta quella dei nemici (Fred Uhlman e Jean Améry, o la meravigliosa ceramista
Adelaida Gigli, emigrante di ritorno, che a volte rifiuta di parlare il castellano
in cui ha allevato i due figli desaparecidos), o chi, come Hanna Arendt,
quella stessa lingua la assolve e se la tiene stretta.
A questi “casi esemplari” di scrittori e intellettuali,
che disegnano una rete di interrogativi sul rapporto tra la letteratura e la delicata
trama delle lingue che la attraversano, si intrecciano però anche altri fili: l’identità,
la migrazione, la memoria, l’esclusione di coloro che “non riescono a uscire dalla
propria lingua” per confrontarsi con quella del luogo in cui la guerra o la fame
li hanno sospinti; la necessità di intaccare l’omogeneità di un sistema, l’insinuarsi
di altre immagini e altre storie, l’estendersi di zone aperte in cui si definiscono
nuovi modi di pensare e di vedere; la consapevolezza che la lingua in cui stiamo
parlando o scrivendo ne contiene molte altre, sommerse, nascoste, come afferma Anita
Desai riferendosi al suo Notte e nebbia a Bombay. Vivere tra le lingue ed
esserne vissuti, dunque, sapendo sempre che “il cambio di lingua presuppone
una specie di “tragedia privata”. Si ha l’esperienza di una trasmigrazione, ma senza
la perdita del passato, perché, in questo caso, il passato viene rivisitato alla
luce di una nuova lingua. A quel punto, ci sembra di avere una vita spezzata, divisa
da due o più lingue; ogni ricordo parla la sua”. Un argomento sul quale vale la
pena di riflettere, se è vero che, come ci ricorda Bravi, “vivere significa migrare”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto il 22 settembre 2017