domenica 24 settembre 2017

Da leggere: Adrián Bravi


Adrián Bravi



Infanzia argentina, maturità italiana

Diceva Juan José Saer che quasi tutta la letteratura argentina del XIX secolo è stata scritta in esilio e dall’esilio, e lo stesso si può sostenere, tutto sommato, a proposito di quella del secolo scorso e del nostro, così spesso concepita sotto cieli diversi da quello nativo. Basterebbe ricordare i “parigini” Cortazar, Bianciotti, Copi e lo stesso Saer; Tomás Eloy Martinez, prima rifugiato in Venezuela e in Messico, poi professore per anni e anni a Rutgers; Juan Rodolfo Wilcock, che nel 1957 scelse di stabilirsi in Italia… E l’elenco di chi se n’è andato – a volte per non tornare, a volte per rientrare da semplice visitatore o per sempre – potrebbe essere infinitamente più lungo, viste le dimensioni di una diaspora dalle motivazioni diverse e mai davvero conclusa.

Accanto a coloro che, vivendo in un costante bilinguismo, hanno continuato a scrivere nel castellano fedele alle peculiarità dell’idioma argentino, c’è chi ha rinunciato alla lengua madre per adottarne un’altra: il francese per Bianciotti e Copi, l’inglese e il francese per Sylvia Molloy, un superbo italiano per Wilcock… E in italiano, dopo un romanzo d’esordio in spagnolo, scrive dal 2004 anche Adrián Bravi, nato a Buenos Aires, che venticinque anni fa ha affrontato in senso contrario il viaggio compiuto dai suoi nonni due generazioni prima, per approdare ai luoghi (le Marche) dai quali la famiglia era partita e a una lingua conosciuta solo attraverso il cocoliche della nonna, quel misto di italiano e spagnolo degli antichi immigrati, abbastanza vigoroso da infiltrarsi in certe pieghe della parlata e del teatro popolare argentini.

Bravi, con sei romanzi pubblicati da Nottetempo e un libro di racconti, è oggi un autore affermato, che, invitato a Cordoba dal nostro Istituto di Cultura, si è ritrovato paradossalmente a parlare in italiano a un pubblico ispanofono e a ricevere un suggestivo ammaestramento da un anziano immigrato calabrese, pronto a spiegargli che “lo spagnolo è una lingua bella e musicale, ma troppo gelosa: una lingua che uccide tutto intorno a sé, perché vuol sempre prevalere sulle altre”. Così, per la prima volta, all’autore è venuta l’idea di scrivere un libro su La gelosia delle lingue, proprio quello che adesso, a qualche anno di distanza, appare per le Edizioni Università di Macerata (pag. 180, e. 10): un testo diviso in capitoli brevi, ma assai ricco sia di citazioni colte, sia di deliziosi excursus autobiografici (i giochi nel giardino di un vicino di casa chiamato Ernesto Sabato; la zia che, sul piroscafo per l’Argentina, finita l’acqua potabile allatta i bambini assetati, senza riuscire a salvarli tutti), racchiusi nella “maternità” piena di ricordi e di sotterranee correnti poetiche del castellano di un tempo, che per Bravi è una lingua senza vecchiaia, così come l’italiano è e rimane una lingua senza i colori e i sapori dell’infanzia.

Oltre ad esplorare il proprio percorso tra lo spaesamento e il progressivo installarsi in un italiano amichevole e ospitale, che offre le suggestioni dei dialetti e acconsente ad accogliere intonazioni, costruzioni, echi della lengua madre, Bravi affronta i casi affini e diversi di scrittori che hanno abbandonato la propria lingua per scrivere in un’altra percepita come imprendibile e ostile (è il caso di Agota Kristoff), o della quale si servono per affrontare nuove sfide stilistiche (ed è il caso Beckett o di Nabokov). Qualcuno, come Bianciotti e Wilcock, vuole spogliarsi del passato, quasi fosse una placenta dalla quale si emerge per rifondare la propria scrittura, e forse la propria vita; altri, come Canetti e Anita Desai, scelgono una lingua per mettere ordine tra le molte che li accompagnano sin dalla nascita. E c’è poi chi ha dei conti da regolare con una lingua divenuta quella dei nemici (Fred Uhlman e Jean Améry, o la meravigliosa ceramista Adelaida Gigli, emigrante di ritorno, che a volte rifiuta di parlare il castellano in cui ha allevato i due figli desaparecidos), o chi, come Hanna Arendt, quella stessa lingua la assolve e se la tiene stretta.

A questi “casi esemplari” di scrittori e intellettuali, che disegnano una rete di interrogativi sul rapporto tra la letteratura e la delicata trama delle lingue che la attraversano, si intrecciano però anche altri fili: l’identità, la migrazione, la memoria, l’esclusione di coloro che “non riescono a uscire dalla propria lingua” per confrontarsi con quella del luogo in cui la guerra o la fame li hanno sospinti; la necessità di intaccare l’omogeneità di un sistema, l’insinuarsi di altre immagini e altre storie, l’estendersi di zone aperte in cui si definiscono nuovi modi di pensare e di vedere; la consapevolezza che la lingua in cui stiamo parlando o scrivendo ne contiene molte altre, sommerse, nascoste, come afferma Anita Desai riferendosi al suo Notte e nebbia a Bombay. Vivere tra le lingue ed esserne vissuti, dunque, sapendo sempre che “il cambio di lingua presuppone una specie di “tragedia privata”. Si ha l’esperienza di una trasmigrazione, ma senza la perdita del passato, perché, in questo caso, il passato viene rivisitato alla luce di una nuova lingua. A quel punto, ci sembra di avere una vita spezzata, divisa da due o più lingue; ogni ricordo parla la sua”. Un argomento sul quale vale la pena di riflettere, se è vero che, come ci ricorda Bravi, “vivere significa migrare”.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto il 22 settembre 2017