Juan Goytisolo e Monique Lange
Juan Goytisolo, lo scrittore errante
Juan Goytisolo voleva essere seppellito in Marocco, il paese dove aveva scelto
di risiedere (e dove possedeva una casa nella Medina di Marrakech, vicinissima alla
piazza Jâmiʻ al-fanâʼ, che aveva contribuito a far dichiarare Patrimonio dell’Umanità),
e si raccomandava che non riportassero il suo corpo a Barcellona, la sua città natale,
per rinchiuderlo nella tomba di famiglia, una pretenziosa riproduzione in miniatura
del Duomo di Milano, che per lui era il simbolo di “tutto l’orrore della classe
borghese e sfruttatrice” rifiutata e combattuta sin da ragazzo. Desiderava, inoltre,
che la sua sepoltura fosse estranea ai simboli di qualsiasi fede religiosa, ed è
per questo che uno tra i più grandi e singolari scrittori spagnoli contemporanei,
morto il quattro giugno, riposa ora a Larache, nel vecchio cimitero laico dove nel
1986 venne sepolto Jean Genet, che per lui era stato un punto di riferimento “più
morale che letterario”.
I due si erano conosciuti durante l’esilio francese di
Goytisolo, nato nel 1931 ed espatriato nel ’56 per stabilirsi a Parigi – in Spagna
le sue opere erano proibite, tanto che fino al 1975 vennero pubblicate da editori
messicani –, e a farli incontrare era stata Monique Lange, che lavorava per l’editore
Gallimard, del quale lo scrittore era autorevole consulente per l’area ispanica
(“Juan Goytisolo è stato il primo scrittore spagnolo del suo tempo a interessarsi
della letteratura latinoamericana, a leggere e promuovere i nuovi romanzieri, e
a farli tradurre in francese. Fu, anche, uno dei primi a capire che la letteratura
di lingua spagnola era una sola, e a sforzarsi di riunire di nuovo queste due comunità
di scrittori delle due rive dell’oceano…” ha scritto di lui Mario Vargas Llosa).
Amici fino alla fine, i due scrittori, e uniti fino
alla fine anche Goytisolo e Monique, romanziera squisita e intellettuale di raro
acume scomparsa nel 1996, che per trent’anni gli fu accanto e lo sposò nel 1978:
un rapporto saldo quanto insolito, visto che negli anni ’60 Juan decise di dichiarare
apertamente la propria omosessualità, in tempi in cui “la letteratura spagnola era
muta dalla cintola in giù”, come ha sottolineato il critico letterario Manuel Alberca.
Per Goytisolo quel disvelamento così netto, quasi brutale,
rappresentò un momento di rottura, accompagnato non solo da soggiorni in Nordafrica
sempre più prolungati (si fermerà definitivamente a Marrakech solo dopo la morte
di Monique), ma anche da una brusca svolta che ne rifondò l’opera, a partire dalla
stesura del romanzo Señas de identidad, il suo
“esame di coscienza”, pubblicato nel 1966.
Fino ad
allora Goytisolo era collocabile nella corrente del “realismo sociale” spagnolo,
come testimoniano i romanzi e i racconti scritti tra il ’54 e il ’62, e poi in qualche
modo rinnegati (“politicamente inefficaci, le nostre opere erano, oltretutto, letterariamente
mediocri; credendo di fare letteratura politica non facevamo né una cosa né l’altra”,
scrisse nel saggio Literatura y eutanasia), anche se l’impegno politico e
l’indignazione per l'ingiustizia non vennero mai meno, facendone un testimone prezioso
delle guerre in Bosnia e in Cecenia, un avversario acerrimo del nazionalismo e del
neoliberismo, un critico severo delle ortodossie religiose, dell’ipocrisia omofobica
e di un mondo “intrappolato tra consumismo e terrore”.
È da Señas
de identidad, in poi che tutto cambia e che Goytisolo rivendica non solo la
“felicità fisica” di un’omosessualità che non gli impedisce di mantenere un’intensa
relazione affettiva con Monique (alla quale dedicherà, dopo la precoce scomparsa,
un piccolo libro struggente, intitolato Elle), ma anche una libertà letteraria
proiettata verso la ricerca costante del nuovo – “senza idea di novità non c’è autentica
opera” – e sciolta dai lacci della tradizione. La differenza tra il periodo del
realismo e quello successivo è enorme, e la confermano mirabili provocazioni come
Reivindicación del conde don Julián, Juan sin Tierra, Makbara, Paisajes después de la batalla, La saga de los Marx,
Telón de boca, El exiliado de aquí y de allá, in cui si consolida
via via una perpetua sperimentazione, mentre saltano i confini tra poesia e prosa
e si afferma un intreccio di tempi e spazi differenti, di richiami all’oralità (molti
dei suoi romanzi, diceva Goytisolo, erano fatti per essere letti ad alta voce),
di mescolanza tra “colto” e “popolare”, di allusioni a un canone che non è quello
consacrato dalle storie della letteratura spagnola, ma viene da lui esteso, nei
testi narrativi come nell’ampia produzione saggistica, ad autori eterodossi, a pensatori
emarginati eppure fondamentali, lontani da quella tradizione conservatrice, nazionalista
e cattolica culminata nel trionfo del franchismo.
Grande conoscitore del mondo arabo, di cui parlava perfettamente la lingua,
proponeva all’Occidente un diverso rapporto, fondato sulla conoscenza e il dialogo,
con le tante facce dell’islam, e non esitava a dichiarare il suo rigetto del wahabismo
(si rifiutò sempre, infatti, di visitare l’Arabia Saudita), espresso in maniera
definitiva in un illuminante articolo apparso nel 2003 sulla Revista de Occidente.
Considerando il multiculturalismo un’illusione, optava piuttosto per la conoscenza
e il rispetto nei confronti dell’antica e tutt’ora viva pluralità di culture che
si nasconde sotto la superficie in apparenza omogena di quelle nazionali; e la lunga
lontananza dalla Spagna (cui sempre tornava, però, e sulle cui vicende si manteneva
minutamente informato), la vita errante e la scelta di avere molte patrie e nessuna,
erano anche un modo per testimoniare l’esistenza, all’interno della cultura spagnola,
di questa pluralità soffocata e disprezzata, il cui riconoscimento gli sembrava
necessario e inevitabile.
Quanto a lui, si dichiarava “di nazionalità cervantina”, in omaggio a un Cervantes
riletto come autore eversivo ed eternamente moderno, e aggiungeva, parlando di sé:
“Nato a Barcellona, non mi esprimo in catalano. E neppure sono basco, nonostante
il mio cognome. Anche se scrivo e pubblico in spagnolo, non vivo da decenni nella
penisola e mi colloco ai margini della corporazione. Per questo mi hanno prima etichettato
come francesizzante, anche se in francese ho scritto solo un pugno di articoli.
Ora mi chiamano, molto cortesemente, moro, perché padroneggio l’arabo dialettale
del Marocco e mi sono stabilito a Marrakech”.
La Spagna, oltre a riservargli molte critiche ingiuste e molte incomprensioni
(non solo in vita, se si pensa al meschino e velenoso necrologio stilato sul proprio
blog da Juancho Armas Marcelo, cattedratico e scrittore, e apparso sul quotidiano
El Mundo) lo ha comunque onorato e riconosciuto, soprattutto negli ultimi
anni della sua vita – i più difficili, i più tristi, segnati dalle difficoltà economiche
e da molte sofferenze –, con dozzine di saggi e studi sul suo lavoro e con i premi
nazionali più importanti, come il Cervantes. In Italia, dove un tempo editori quali
Einaudi e Feltrinelli avevano proposto la sua opera, oggi si può leggere ben poco
di suo: un’altra conferma di quanto avesse ragione, quando sosteneva che la censura
“prima era politica, ma quella di oggi, quella commerciale, è ancora più terribile,
perché gli editori pensano che se un’opera non venderà più di duemila copie non
vale la pena di pubblicarla. E con questo criterio si rischia di perdere metà della
letteratura migliore”. Come la sua.
Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto
nel giugno del 2017