Il Cile di oggi in tredici racconti
“Non lasciate che vi rubino il futuro, non permettete che noi, i vostri padri,
moriamo in un paese governato dagli stessi che ci hanno esiliati, che ci hanno uccisi”.
Queste parole fanno parte di un appello pubblicato pochi giorni prima delle elezioni
presidenziali da Raul Zurita, uno dei più grandi tra i grandi poeti cileni, che
durante la dittatura fu arrestato e torturato, ma che una volta libero non scelse
la via dell’esilio: rimase e diventò, insieme agli altri membri del neoavanguardista
Colectivo de Acciones de Arte, veicolo di dissidenza artistica e opposizione
attiva. Prostrato da una malattia di cui soffre da anni, ma per nulla incline ad
arrendersi e a tacere, Zurita ha oggi sessantasette anni e dalle pagine della rivista
The Clinic si è rivolto alle nuove generazioni, invitandole a mobilitarsi
per sbarrare il passo a Sebastián Piñera, fratello
di un ministro di Pinochet e per anni vicino all’Opus Dei e al regime dei militari,
che ha già dato disastrosa prova di sé durante il suo primo mandato presidenziale,
concluso nel 2014.
Grazie anche alla massiccia astensione, il 17 dicembre Piñera è stato tuttavia
eletto con una larga maggioranza, ma è difficile
credere che i responsabili siano i “figli” cresciuti all’ombra della dittatura (e
oggi a propria volta padri) o nati quando stava ormai per concludersi; sono soprattutto
loro, infatti, i protagonisti della nuova effervescenza politica che ha visto la
recente affermazione del Frente Amplio (vicino al Podemos spagnolo)
e la prosecuzione delle lotte del movimento studentesco, ma della considerevole
fioritura culturale che oggi coinvolge teatro, cinema, arte e, più di ogni altra
cosa, la letteratura. La qualità e la varietà della narrativa cilena dell’ultimo
decennio, ancora troppo poco tradotta in italiano, è infatti innegabile, e
proprio in questi giorni l’editore umbro gran vía ce ne offre eccellenti
assaggi in Tintas. Tredici racconti dal Cile (pag. 286, e. 16), un’antologia
curata da Maria Cristina Secci, ispanista attentissima alla scena letteraria latinoamericana,
che ha accostato nomi importanti come quello di Alvaro Bisama, Alejandro Zambra,
Lina Meruane e Alejandra Costamagna ad altri meno noti ma di sorprendente bravura,
come Marcelo Leonart, Alia Trabucco e Benjamín Labatut.
Gli autori presentati, tra i migliori della letteratura cilena contemporanea,
sono nati tra il 1970 e il 1988: “figli”, dunque, cresciuti tra il silenzio delle
famiglie, l’onnipresenza del regime, i compromessi della post-dittatura. E di “letteratura
dei figli” parla appunto Alejandro Zambra (presente nell’antologia con Fantasia,
un ottimo racconto su un impossibile amore omosessuale) nel suo romanzo Modi
di tornare a casa (Mondadori 2013), alludendo con questa definizione a testi
che cercano di riempire i vuoti del passato e di illuminarne gli angoli bui, come
accade in González, racconto in cui Nona Fernandez, scrittrice brillantissima,
drammaturga e attrice, torna sul caso dei degollados, i tre militanti comunisti
sequestrati, torturati e assassinati dai Carabineros a metà degli anni ’80,
da lei già narrato nel breve romanzo Space Invaders (Edicola Ediciones,
2015). Un racconto che si regge sulla memoria lacunosa dell’adolescenza (la figlia
del principale responsabile dei delitti era una compagna di scuola dell’autrice)
e avvicina con un immaginario “montaggio” le figure di un ragazzo in piedi accanto
alla bara di uno dei degollados e quella di una ragazza silenziosa, il cui
padre ha dato l’ordine di uccidere. “Sono i figli. È questo che sono”, conclude
Fernandez, con una frase che potrebbe far da epigrafe a tutto il libro.
La frattura generazionale, il tentativo di costruirsi un’identità che discuta
quella dei genitori o semplicemente la ignori, è infatti uno dei temi principali
dell’antologia, popolata di storie che attingono a risorse stilistiche estremamente
varie, ma - con l’eccezione di un luminoso testo di Andrea Jeftanovic sulla malattia
e la morte di un padre molto amato, e del racconto sinistramente erotico Lame
di rasoio, di Lina Meruane - hanno in comune un sottofondo di estraneità nei
confronti dei padri e della società che questi ultimi hanno tacitamente accettato
o contribuito a costruire. Un’estraneità in cui confluiscono la pesante eredità
della dittatura, l’opacità della concertación (lento passaggio alla democrazia
che non ha permesso di fare davvero i conti con il passato) e le conseguenze dell’ultracapitalismo
dei Chicago boys cui Pinochet si era affidato, che per anni ha trasformato
il Cile in un laboratorio del neoliberismo, aumentando ulteriormente le già gravi
diseguaglianze sociali.
Come sottolineano Secci e Jorge Fornet, autori dei due testi che corredano il
volume, i frutti di questa percettibile crepa tra padri e figli si manifestano nelle
narrazioni spesso desolate di scrittori come Carlos Araya Diaz, il cui racconto
L’ultimo film è tra i più belli e formalmente audaci dell’antologia, o come
Diego Zúñiga, appena trentenne (Caravan ha presentato in italiano, nel 2014, il
suo romanzo d’esordio Passeremo per il deserto), che in Un mondo di cose
fredde, racconto glaciale e misurato su due ragazzi che ogni sera dormono abusivamente
in un diverso “appartamento pilota” di lussuosi complessi residenziali, restituisce
il senso di una precarietà senza speranze.
Le periferie di Santiago, le cittadine minerarie, i quartieri dove i nonni emigranti
sono approdati molti anni prima, perdendo patria e linguaggio, gli interni borghesi,
le case occupate, fanno da sfondo a una narrativa incline all’autoficción
più per il bisogno di raccontare la “propria” storia che per ripiegamento intimista,
e che, pur legata al proprio background sociale, politico e letterario, si rivela
profondamente cosmopolita. E anche nel bisogno di trovare una strada senza seguire
le orme altrui si intravede un distacco significativo e salutare non solo dai padri,
ma anche dai fratelli maggiori: non c’è nulla, in questi scrittori fra i trenta
e i quarant’anni, di fenomeni effimeri come il McOndo di Alberto Fuguet e Sergio
Gómez, che movimentò la seconda metà degli anni ’90, ed è sempre più difficile trovare
traccia perfino dell’idolatrato e ingombrante Roberto Bolaño. Il turbinoso, promettentissimo
presente della letteratura cilena sembra procedere per proprio conto, di rapida
in rapida, intrecciando a un futuro non ancora nato i destini dei singoli autori
e le differenze che portano con sé.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2017