María Gainza |
L’arte, nutrimento o veleno
Pubblicato nel 2014 in Argentina in sole mille copie, ed entrato l’anno scorso
nei cataloghi di editori come Anagrama e Gallimard, Il nervo ottico (Neri
Pozza, pag. 171, e. 15) ha una copertina da guardare con attenzione: nel vuoto pallido
dello sfondo galleggia il nerissimo profil à la silhouette dell’autrice María
Gainza, realizzato da Rosana Schoijett, che a un basso chignon stile Virginia Woolf
ha aggiunto un ornamento simile a una macchia di Rorschach (un pettine, una
corona, una pirotecnica esplosione di materia cerebrale?). Uno sfuggente non-ritratto,
insomma, l’immagine monocroma e senza lineamenti di qualcuno che si autodefinisce
per sottrazione, dichiarando di non essere una “vera” critica d’arte, nonostante
un ricco percorso professionale indichi il contrario, e neppure una “vera” scrittrice,
anche se l’incantevole testo che ci viene oggi proposto in italiano, nella traduzione
di Marco Almerighi, la smentisce.
L’ingresso di María Gainza nel sorprendente vivaio delle più recenti voci femminili
latinoamericane rappresenta infatti una autentica rivelazione e il suo debutto nella
narrativa avviene all’insegna di una narrazione la cui misteriosa eleganza sfuma
e confonde i confini dei generi, intrecciando una visione dell’arte come esperienza
vitale, travolgente e quasi fisica, a una sorta di diario intimo dove confluiscono
tanto le allegrie, le esperienze, le ansie di una protagonista bambina, adolescente
e poi donna, quanto un ritratto pungente dell’alta borghesia argentina e della sua
decadenza. Si potrebbe definire Il nervo ottico un quasi romanzo i cui undici
capitoli, pur formando un tutto coerente e armonioso, si prestano a essere letti
come racconti a sé, che si avvolgono a spirale intorno a un’opera d’arte e alla
vita del suo autore, insieme alla rivolta di una ragazza che si allontana dalla
propria classe sociale (Gainza è la “pecora nera” di un patriziato d’oltremare),
al suo difficile rapporto con una madre trasudante bon ton, agli incontri
più diversi in una straniante Buenos Aires coperta di neve o di cenere, a figure
eccentriche come il favoloso zio Marion, che “per vivere aveva bisogno di shock
estetici”, o dolorose come il fratello maggiore, con il suo carico di fallimenti
e di promesse mancate.
Le sale dei Musei cittadini, rifugio dei momenti difficili, sono il luogo dove
un minuscolo dipinto di Toulouse-Lautrec o un ritratto firmato da Augusto Schiavoni,
in cui la protagonista si riconosce con stupore (“A undici anni ero esattamente
così, con gli occhi distanti, freddi come la punta di uno spillo, la faccina sempre
imbronciata e il mento supponente”), suscitano emozioni, offrono conforto, consentono
di superare l’ovvio guado della competenza accademica, e, in una sorprendente catena
di associazioni, aprono la strada verso altre storie e altre immagini. Memoria e
quotidianità dialogano con quadri diversi per epoca e stile, non necessariamente
i più famosi o i migliori, ma punti di riferimento, tappe dell’apprendimento estetico
dell’autrice e di una sua intima educazione sentimentale.
Così l’incendio della casa di famiglia, per esempio, fa pensare alle rovine
di Hubert Robert, e da una mostra di El Greco si scivola tra i malati di cancro
che aspettano il loro turno per la radioterapia, mentre il cervo assalito dai cani
da caccia dipinto da Alfred De Dreux evoca il tempo in cui il Museo dov’è esposto
era un palazzo abitato dalla famiglia materna di Gainza, che pranzava davanti allo
sguardo di stupore quasi attonito dell’animale morente; lo stesso sguardo, forse,
di un’amica di María, una ragazza qualsiasi uccisa per errore dai cacciatori nel
parco di un castello francese.
Se le biografie degli artisti oscillano tra le vite immaginarie alla Schwob
e la divulgazione colta e appassionata, e se la lettura delle opere evita i tecnicismi,
le vicende della protagonista (che, come nella silhouette di copertina, è Gainza
eppure non lo è) vengono costruite sommando immagini, dettagli, citazioni letterarie
sparse con discrezione da una voce narrativa mutevole e raffinata, che passa senza
sforzo dalla prima alla seconda e terza persona, alterna l’ironia a tragedie sommesse
e durezze improvvise, crea personaggi e scene di suggestione non inferiore a quella
dei quadri esplorati, e soprattutto si serve di una scrittura di inusuale sicurezza.
Collage vertiginoso, come quelli verde-azzurri con cui una cugina di María ricopre,
prima di uccidersi, le pareti di una villa diroccata, quasi a simulare l’onda di
Courbet, Il nervo ottico ha una struttura aperta, senza un vero e proprio
inizio e con molte differenti vie d’ingresso e di uscita, ma non è un labirinto,
perché a farci da guida sono i sassolini rivelatori che l’autrice dissemina qua
e là, dicendoci, per esempio: “si scrive di una certa cosa per raccontarne un’altra”.
Oppure confessando: “Gli unici frequentatori dei musei che mi piacciono sono i bambini
delle elementari. Anche se è un piacere agrodolce, perché appena si siedono in semicerchio
sul pavimento gelato della sala e la maestra inizia a spiegare la pala di Velázquez,
le loro facce si tingono di una tonalità tra il verde e l’azzurro, e le occhiaie
si trasformano in trincee tenebrose. “Smettetela!” vorrei gridare. Se somministrata
male, la storia dell’arte può essere più letale della stricnina”. Ed è forse per
trasformare il veleno in nutrimento, che María Gainza ha scritto questo libro.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel dicembre del 2017