Nicanor Parra
Nicanor Parra: vado e torno
Nel suo discorso di inaugurazione della Fiera del Libro di Santiago de Chile
del 2010, Sebastián Piñera (allora al suo primo mandato, e oggi nuovamente eletto
Presidente della Repubblica) fece omaggio ai presenti di uno dei suoi celebri strafalcioni,
o gaffes, o stupidaggini senza perdono, definiti con apposito neologismo piñericosas.
Nel ricordare i grandi poeti cileni del presente e del passato – un’impressionante
parata di nomi noti in tutto il mondo, da Neruda a Mistral, da Huidobro a de Rokha
– incluse nella schiera dei defunti anche Nicanor Parra, che era invece vivissimo
e ancora attivo, sia pure nella lontana solitudine di Las Cruces, un paesetto di
duemila abitanti in riva all’oceano, dove si era ritirato da diversi anni.
Più che centenario (era nato nel 1914 a San Fabián de Alico, sulla cordigliera
andina), ormai fragilissimo ma lucido fino alla fine, Parra è morto invece il 23
gennaio di quest’anno ed è stato sepolto in forma privata nel piccolo cimitero di
Las Cruces, salutato dai figli, da molti nipoti, dagli amici e anche da Michelle
Bachelet, presidente in carica fino a metà marzo. Nei due giorni precedenti, però,
le istituzioni, il governo e gli abitanti di Santiago si sono congedati dal poeta
in modo ben più solenne ed ufficiale, con due giorni di lutto nazionale, una veglia
prolungata nella Cattedrale Metropolitana (luogo bizzarro, per qualcuno che diceva
di sé: “Sono ateo, grazie a Dio”) e una schiera di personalità, compreso quel Piñera
che lo aveva prematuramente “ucciso”. Il tutto, come sarebbe probabilmente piaciuto
al defunto, tra molte polemiche e qualche sberleffo postumo: per poco, infatti,
i parenti non si sono portati via la bara perché le autorità ecclesiastiche si rifiutavano
di adottare come musica di accompagnamento le canzoni di Violeta Parra, amatissima
sorella minore di Nicanor; sul feretro, inoltre, insieme a una vecchia coperta patchwork
cucita in anni lontani dalla sarta Rosa Sandoval, madre degli otto fratelli Parra,
è stato appoggiato un cartellino con su scritto “Vado e torno”. Un cartellino che
ha una storia, naturalmente, perché fa parte di un’opera di Parra intitolata El
pago de Chile ed esposta per la prima volta nel 2006, con grande scandalo, nel
Museo de la Moneda: un enorme crocifisso vuoto su cui è applicato un cartiglio con
la frase Voy y vuelvo, e dietro il quale penzolano (appese o impiccate?)
le immagini dei presidenti cileni.
Nemico degli omaggi e delle celebrazioni inutili, ormai circondato da un vero
e proprio culto del quale non poteva che ridere, nel corso della sua lunga vita
Parra aveva fatto di tutto per demolire la solennità e l’autoreferenzialità della
poesia ufficiale, conducendo per anni una sorta di personale “guerra fredda” con
Pablo Neruda, spingendosi sempre più lontano e sperimentando di continuo, come del
resto fecero, per altre vie, poeti cileni altrettanto eterodossi, dal quasi sconosciuto
e singolarissimo Juan Luis Martínez a Enrique Lihn (del quale, tra l’altro, ricorre
quest’anno il trentennale della morte). Proprio con Lihn e Jodorowsky, nel 1952
Parra aveva realizzato una serie di interventi riuniti sotto il nome di Quebrantahuesos
(Spezzaossa), occupando i muri di vari luoghi di Santiago (per esempio della calle
Bandera, di fronte al Tribunale) con testi creati utilizzando ritagli di giornali:
un’opera di cui restano solo fotografie incluse nell’unico numero della rivista
Manuscritos, del 1975.
Più tardi, nel 1966, Parra avrebbe cominciato a pubblicare i suoi famosi Artefactos,
veri esempi di poesia visuale, come una serie di cartoline con testi, immagini,
slogan, frasi in cui abbondano lo scherzo, le parole “volgari”, le beffe, gli attacchi
alla Chiesa e al potere, leggibili in qualsiasi ordine e contenuti in una scatola;
nel 1970, poi, prese ad alterare l’ortografia e la punteggiatura, adottando segni
e abbreviazioni che sembrano anticipare il linguaggio contratto e sintetico degli
SMS. Un passo in più sulla strada di quella che l’autore chiamava “antipoesia”:
non una scuola, non una tendenza letteraria o una bandiera, quanto un modo di vedere
il mondo e l’arte, sull’onda di una continua e imprendibile ribellione, ma anche
di una vita singolare e fuori dagli schemi.
Primogenito di una famiglia povera ed errante (il padre cambiava spesso mestiere
e città), Parra fu l’unico dei suoi fratelli a studiare e a laurearsi in matematica
e fisica, lavorando per mantenersi, finché nel ’43 ottenne una borsa di studio per
un dottorato negli Stati Uniti; nel ’49 un’altra borsa gli permise di frequentare
l’università di Oxford per due anni, e per quarant’anni fu professore di fisica
all’Università di Santiago: uno scienziato, dunque, e di un certo prestigio. Ma
prima di tutto un poeta, che aveva cominciato a scrivere i primi versi quando ancora
frequentava il liceo, e che nel 1937 aveva esordito con un primo volume per nulla
“antipoetico” e vagamente ispirato a García Lorca, Cancionero sin nombre,
che in qualche modo si opponeva all’ermetismo , al surrealismo, al soggettivismo
allora in voga; una prima tappa di breve durata, destinata a lasciare il posto a
una poesia diversa da tutte le altre, secca, aspra, sarcastica, che fa largo uso
dell’umorismo e dell’assurdo, passando di frequente dal verso libero al ritmo e
al metro del verseggiare popolano e popolare, lo stesso che Violeta inseguiva nella
sua musica. Era, quello di Parra, un tentativo di fare poesia con parole comuni
e chiare, con persone, voci, oggetti di tutti i giorni, cercandola dove nessuno
l’aveva cercata, togliendole sacralità, annullando le distanze tra verso e vissuto,
insomma calandola interamente nella vita.
A partire dal suo secondo libro Poemas y antipoemas, del 1954, fino al
ventiquattresimo e ultimo Antiprosa, del 2015, l’opera di Parra è una fonte
continua di soprese, provocazioni, esperimenti, passaggi dall’avanguardia alla più
cilena e maliziosa della cuecas: quasi un succedersi di piroette e balzi
destinati a sottrarlo alla sistematicità dell’approccio critico (e lo sa bene Ignacio
Echeverría, il critico spagnolo che ha curato per Lumen l’edizione delle sue opere
complete). E altrettanto mutevole era stata, negli anni, la sua posizione politica,
mai veramente definita: di sinistra in gioventù, sinceramente democratico ma deluso
da tutto durante la maturità, capace di prendere il tè con la moglie di Nixon negli
anni ’70, nel corso di un incontro ufficiale tra poeti a Washington (un episodio
che non gli venne mai perdonato), apertamente critico nei confronti della dittatura
ma con scarsa simpatia per Unidad Popular, e, per una buona metà della sua vita,
fermamente ecologista e ossessionato dalla distruzione della natura e del pianeta.
Che lo volesse o no, per ironia della sorte e nonostante l’isolamento volontario
in una casetta spartana e remota, l’incapacità di “parlare sul serio” e la dichiarata
vocazione di guastafeste, Parra ha finito comunque per condividere lo stesso pantheon
degli autori che non gli piacevano e che contrastava: un poeta carico di onori (“È
la prima volta che ottengo un premio immeritato” disse, quando gli fu assegnato
il Cervantes, “e spero che non sia l’ultima!”), per il quale Harold Bloom reclamava
il premio Nobel e che Roberto Bolaño idolatrava in modo quasi adolescenziale. Un
poeta ultracentenario che non ha mai smesso di scrivere della morte, soprattutto
della propria, dettando in una lunga poesia i suoi desideri per una eccentrica veglia
funebre, per concludere infine che, una volta chiusa la sua sepoltura, tutti potranno
fare quel che vogliono, ridere, piangere, ballare, ricordandosi però di mantenere
un minimo di compostezza se urtano una lapide perché “in quel buco nero vivo io”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2018