Realismo, delirio e premonizione
Nel corso di una vita difficile e segnata da una povertà spesso estrema, Alberto
Laiseca – nato a Rosario nel 1941, cresciuto in una sperduta colonia agricola e
morto a Buenos Aires nel 2016 – visse per un certo periodo a Escobar, anche se lavorava
nella capitale, dove fece per anni lo spazzino, l’operaio della società telefonica
e il correttore di bozze, ma senza mai smettere di scrivere, dopo il lungo viaggio
sull’autobus che lo riportava a casa. Una sera, rientrando, scoprì che i suoi cani
avevano ucciso un gattino accolto in casa da poco; addolorato e furente, avrebbe
voluto punirli in qualche modo, solo che, invece di picchiarli, gli venne spontaneo
mettersi ad abbaiare e ululare come loro. I cani rimasero atterriti da quella metamorfosi,
e ci misero giorni a riprendersi dallo choc.
L’episodio, benché minimo, dice molto su uno scrittore leggendario, eccessivo
perfino fisicamente (alto quasi due metri, con una voce cavernosa che narrava storie
del terrore a spettatori incantati, era l’incarnazione dell’orco o del gigante)
ed eccentrico come pochi; a raccontarlo è, in Continuación de ideas diversas
(UDG, 2014), César Aira, che Laiseca lo conosceva bene, visto che insieme a Ricardo
Piglia e Rodolfo Fogwill aveva letto i voluminosi manoscritti del collega “campagnolo”
e contribuito a diffondere la voce sull’esistenza di un “romanzo totale”, geniale
e stravagante, costato al suo autore dieci anni di lavoro solo per l’ultima delle
quattro stesure: Los sorias, che navigava in segreto sotto la superficie
della letteratura argentina, ormai in procinto di staccarsi dal canone borgesiano
e di accantonare, più che uccidere, un “padre” così ingombrante e normativo.
Quando le 1400 pagine di Los sorias emersero come un sottomarino fantasma,
erano trascorsi sedici anni dal momento in cui Laiseca l’aveva terminato; Simurg,
piccolo editore di pochi mezzi, nel 1999 fu abbastanza audace da produrne 350 copie
numerate e firmate (le due riedizioni successive porteranno a 2850 gli esemplari
del libro), con un prologo entusiasta di Ricardo Piglia, che sin dall’inizio aveva
accostato lo scrittore a Philip K. Dick e a Thomas Pynchon, nonché a Roberto Arlt.
Los sorias è il miglior romanzo scritto in Argentina dopo “I sette pazzi”
è la frase di Piglia che inevitabilmente viene citata quando si parla di Laiseca,
eppure sono in pochi, ancora oggi, ad averlo letto, nonostante in quarant’anni abbia
acquisito la qualità mitica di un inafferrabile Moby Dick, venerato da un ristretto
gruppo di lettori, gli stessi che probabilmente amano Copi oppure Osvaldo Lamborghini.
Il Laiseca che vide finalmente pubblicato il suo opus magnum era comunque
uno scrittore riconosciuto, se non conosciuto: nel 1976, l’insistenza di Osvaldo
Soriano aveva indotto l’editore Corregidor a pubblicare Su turno (diventato
Su turno para morir, nel tentativo di travestirlo da poliziesco), il primo
di tredici romanzi cui si aggiungeranno tre raccolte di racconti, un libro di poesie
e una sorta di saggio sul plagio. Tutte uscite presso piccoli e sofisticati editori,
le opere di Laiseca variano notevolmente per lunghezza, densità, argomento, ambientazione
– si va dall’antica Cina all’Egitto dei Faraoni, dalle cloache di Buenos Aires al
castello di Dracula –, e rivelano il suo interesse per l’esotismo, la storia, la
scienza, ma anche per le forme più insolite del sapere, intrecciati a una violenza
e a un sadomasochismo che l’eccesso costante, l’assenza del limite e un umorismo
iperbolico trasformano in parodia feroce, rendendoli funzionali a un discorso sul
potere germogliato all’epoca in cui il bambino Alberto, solitario e senza madre,
doveva subire l’autoritarismo irragionevole e assoluto del padre.
Lunghi o brevi, spesso straordinari come La hija de Kheops (1989), La
mujer en la muralla (1990), El jardín de las máquinas parlantes (1993),
El gusano máximo de la vida misma (1999), i testi di Alberto Laiseca sembrano
ruotare intorno a Los sorias, mossi da una ferrea poetica che l’autore ha
chiamato “realismo delirante”: dietro il delirio, infatti, finisce sempre per affiorare
la parte invisibile della realtà, rivelata dallo sguardo e dalla voce di uno scrittore
che (come suggerisce Hernán Bergara nella postfazione) ha trasformato
se stesso nella propria opera. A differenza di Raymond Roussel, che dichiarava spesso
di ammirare, Laiseca non prescinde mai dal reale, piuttosto ne individua la mostruosità
e cerca di indicarci che in qualche modo si può diventare migliori. Come? Costruendosi
attraverso la letteratura e servendosi liberamente di quella altrui (il plagio esibito,
la citazione, la riscrittura, il pastiche, sono fondamentali nelle opere di Laiseca).
Possiamo rendercene conto già da quel suo primo romanzo, ora uscito in italiano
nella collana Gli Eccentrici dell’editore Arcoiris – che il curatore, Loris Tassi,
ha trasformato in una risorsa per lettori in cerca di vie poco battute, pubblicando
tra l’altro due titoli importanti del Laiseca più breve, Uccidendo nani a bastonate
e Avventure di un romanziere atonale – e tradotto benissimo da Francesco
Verde, con il titolo di È il tuo turno (pag. 136, e. 12): una demenziale
storia di gangster e poliziotti uniti da una sanguinaria megalomania dal fondo curiosamente
etico, che si dipana tra massacri in stile San Valentino e retate con commento musicale
wagneriano. Adottando uno stile che imita il copione cinematografico e utilizzando
linguaggi spuri (per esempio un italiano inventato, un espediente usato anche da
Copi), saltando da Bradbury a Gaston Leroux, dai generali della seconda guerra mondiale
ai pensatori cinesi, ma soprattutto pescando a piene mani nell’hard boiled cinematografico
e letterario e trasformandolo nel confronto tra due superuomini fin troppo simili
(il commissario Craguin e il gangster ‘O Connor, detto “Nonna”, che vuole cancellare
prima la mafia e poi i sindacati corrotti, incapaci di difendere i lavoratori),
Laiseca afferma la sua visione di un mondo dove il potere ha un senso solo se si
cerca in tutti i modi di perderlo.
La parodia e il gioco delle citazioni sono irresistibili, ma il libro non può
non risultare inquietante, se si pensa che venne pubblicato nell’anno del colpo
di stato, con una sagoma senza volto in copertina che evoca il siluetazo del
1983 (quando le Madri argentine riempirono i muri con le silhouettes senza volto
dei figli scomparsi), e sembra annunciare le stragi della dittatura; sappiamo che
in Laiseca non c’era la minima intenzione di alludere all’Argentina di quegli anni
o di disegnare una metafora politica, ma è inevitabile, per chi legge, pensare a
come la letteratura possa trasformarsi in lettura del presente e visione del futuro,
perfino al di là della volontà o della consapevolezza di chi scrive. L’aveva fatto
rilevare Tomás Eloy Martínez a proposito di La contessa sanguinaria di Alejandra
Pizarnik, ed è impossibile non rilevarlo anche quando si affronta Laiseca, tanto
più adesso, mentre il mondo si trova in quella che nel suo Nueva ilustración
radical (Anagrama 2018) la filosofa Marina Garcés definisce una condizione non
più post-moderna, ma postuma. Le visioni di Laiseca si sono spinte, infatti, fino
a un presente “postumo”, grottesco e assurdo quanto le sue storie e i suoi protagonisti,
composto da grandi o minuscoli orrori rimandati e dilatati senza soste dalla rete:
il realismo delirante inaugurato da È il tuo turno non è più, sarà bene riconoscerlo,
soltanto il frutto di una scrittura apocalittica e geniale, ma va preso come una
premonizione.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2018