Marta Sanz
Il mestiere di attore, una metafora della precarietà
Un giovedì qualsiasi a Madrid, verso le sette di sera, il tacco di una
scarpa femminile si conficca nella fessura di una griglia di ventilazione, nel
centro esatto di Puerta del Sol. La scarpa appartiene a Valeria Falcón,
matura attrice di qualche notorietà, che, subito prigioniera di un paralizzante
attacco di panico e ruotando su quel tacco simile all’ago di un compasso,
scatta incessanti polaroid mentali della piazza e del suo brulicante paesaggio
umano, avvolto da odori e suoni di intollerabile densità.
Per qualche secondo l’atterrita Falcón, ultima erede di una illustre
dinastia teatrale (“una donna dal nome aereo, spettacolare, e dall’aspetto
debole, anodino”) viene sopraffatta da una raffica di flash sinestesici, finché
riesce a strappare il tacco dalla fessura e ad avviarsi all’appuntamento
settimanale con ciò che resta di Ana Urrutia, ex diva impoverita che trascina
una repellente ma indomita vecchiaia in un appartamento ingombro di rifiuti. E
il lettore si avvia insieme a Valeria, ancora stordito da quell’incipit
travolgente che sta per introdurlo nel complesso labirinto di Showbiz
(pag. 224, e. 16, appena uscito presso Feltrinelli nella traduzione di
Francesca Pe’), l’undicesimo dei dodici romanzi della madrilena Marta Sanz,
oggi poco più che cinquantenne e, a giudizio della critica ma anche di un
pubblico sempre crescente, la più brillante, insolita e audace delle narratrici
spagnole del momento, premiata con l’Herralde de Novela proprio per questo
libro, al quale si è aggiunto l’anno scorso l’autobiografico e più che
notevole Clavícula, apparso come sempre presso Anagrama.
Com’è sua abitudine, anche qui Sanz raccoglie alcuni fili delle opere
precedenti, in particolare di Daniela Astor y la caja negra –
romanzo del 2013 in cui due ragazzine giocano a identificarsi con le giovani e
polpose star del cinema spagnolo appena liberato dalle censure franchiste – e
di No tan incendiario, un suo saggio di qualche anno fa: al primo, Showbiz
(il titolo spagnolo è il ben più armonioso Farándula) si collega
tramite un leitmotiv condiviso, ossia il mondo dello spettacolo e il rapporto
tra la realtà e la sua rappresentazione; l’anello di congiunzione col secondo
è, invece, l’analisi dell’aggressiva svalutazione populista della
cultura, ma anche del suo inserimento nello schema del neoliberismo,
che vede nello spettatore o nel lettore puri e semplici clienti da sedurre e
fidelizzare.
Entrambi i fili vengono inseriti e intrecciati in un romanzo corale che
racconta le storie di attori e attrici impegnati nella preparazione di un
remake teatrale del famoso film di Mankiewicz Eva contro Eva (Valeria Falcón nel
ruolo che fu di Bette Davis, la sua giovane protetta e coinquilina Natalia de
Miguel in quello di Eva Harrington, il cinico e opportunista Lorenzo Lucas
nella parte di Addison DeWitt), ma anche, in parallelo, le vicende di Ana
Urrutia e di Daniel Valls, attore spagnolo famoso in tutto il mondo e fresco
vincitore della coppa Volpi, che vive a Parigi con una raffinata moglie
altoborghese, covando la nostalgia dell’impegno politico giovanile e del possesso
di una coscienza. Accanto e intorno a loro, a riempire ogni interstizio, figure
di contorno come l’infame Julita – badante per mestiere e hater per
vocazione, con il nickname di Giustizia Divina – che
attraversano o protagonizzano capitoli brevi dal ritmo rapido, quasi frenetico,
contraddistinti da un ricchissimo flusso verbale che non ha paura della
ridondanza, dell’eccesso, dell’iperbole, delle lunghe e martellanti
enumerazioni (memorabile quella relativa alla mitologica categoria della “gente”),
per sostenere il codice apertamente satirico adottato dall’autrice e la
polifonia richiesta da un così vasto numero di personaggi.
Una scrittura vertiginosa, quella della Sanz, che non esclude l’osceno e lo
scatologico, che sciorina secrezioni e aromi, che sottolinea il traboccare o il
ritrarsi della carne, e che descrive esplicitamente il disfacimento fisico di
Ana, colpita da un ictus, quanto i complicati esercizi sessuali di Valls e
della moglie, poiché “il corpo è testo, il testo è a sua volta corpo” (e lo è
più che mai quando si parla di attori). Pochissimi i dialoghi diretti – il
perché lo si capisce alla fine, quando si scopre che dietro il narratore in
terza persona o le voci monologanti si nasconde una delle protagoniste – spesso
sostituiti da fiotti di parole, in un continuo ed euforico tentativo di
rovesciare frasi fatte, convenzioni narrative consolidate e anche le attese del
lettore, che potrebbe aspettarsi una storia sul mondo dello spettacolo, con un
pizzico di glamour e di scandalo (gli ingredienti ci sono tutti: red
carpet, evocazioni di star autentiche come Angelina Jolie o George Clooney,
sere della prima e reality show, viali del tramonto e nuovi astri
che sorgono), e invece si trova alla prese con un romanzo di sarcastica
ferocia, in cui la professione di attore e il suo ingannevole luccichio
diventano metafora della precarietà, delle differenze di classe, della paura,
degli indispensabili e umilianti compromessi (uno dei personaggi, brava attrice
di teatro, “sopravvive per vent’anni dentro un costume da rana”, in una
trasmissione per bambini) imposti da una società in cui nulla è certo, tranne
la breccia sempre più profonda delle disuguaglianze.
Ana Urrutia e Valeria Falcòn rappresentano, ciascuna a modo proprio, un
passato fatto di competenza, abilità e saperi, ovvero una cultura disprezzata e
respinta in quanto lusso “elitista” e innecessario, mentre Natalia de Miguel, “Eva”
che passa senza farsi domande dalla delirante popolarità di un reality
romantico ai trionfi teatrali alla pubblicità di un profumo, corrisponde a un
presente in cui l’ideologia tecnologica della Silicon Valley suggerisce l’idea
che l’intelligenza coincida con la capacità di adattarsi al “mezzo”. Quanto a
Daniel Valls, linciato dal vociare collettivo dei social non
appena torna a schierarsi in modo politicamente definito e, invece di limitarsi
ad appoggiare cause alla moda, osa criticare il sistema sociale che lo ha reso
ricco e famoso, rappresenta forse un vicinissimo futuro in cui la compiacenza
assurge a qualità primaria, trasformando l’intellettuale in un giullare alla
ricerca di un mercato.
Appare evidente che Showbiz, così rutilante ed esplosivo, con la sua
carica di humor nero e di sobria compassione, è almeno in parte un’allegoria
delle ingiustizie e delle incertezze attuali, nonché di trasformazioni così
rapide da “farci diventare vecchi prima del tempo”; di certo è un testo
allegramente rabbioso e profondamente politico, ben consapevole dell’inscindibilità
di forma e contenuto: non un pamphlet, non un romanzo a tesi, ma una narrazione
che esprime la propria intrinseca radicalità costruendo strategie letterarie
quanto mai sofisticate e suggestive, capaci di divertire proprio mentre
inducono in chi legge un sottile, persistente, inequivocabile disagio. Perché
questo, dice Sanz, dovrebbe essere l’effetto della letteratura: pungerci, farci
trasalire, procurarci una lieve ma provvidenziale scomodità.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2018