Patricia Ratto
Là dove l’oceano è più profondo, la storia dell’ARA San Luis
Sono passati quasi quarant’anni dalla breve guerra che, tra l’aprile e il
maggio del 1982, seguì all’invasione delle isole Malvine (piccolo arcipelago
dell’Atlantico meridionale e sin dal 1833 territorio d’oltremare del Regno
Unito, ma costantemente rivendicato dalla Repubblica Argentina), voluta dal
generale Galtieri per occultare le difficoltà della giunta militare. E proprio
come l’ultimo tentativo di sopravvivenza da parte della dittatura, cui la
disastrosa sconfitta assestò il colpo finale, viene ancora oggi letto questo
surreale episodio bellico: una lettura alla quale, però, se ne sono aggiunte e
sovrapposte altre più complesse e articolate, che hanno dato vita a una vasta
produzione documentaria e memorialistica e soprattutto a un fiume di romanzi e
racconti, le cui opere fondanti restano Los Pichiciegos di
Fogwill (Scene da una battaglia sotterranea, Sur 2011), scritto in presa
diretta nel 1982 da uno dei più brillanti ed eterodossi fra gli autori
argentini, e Las Islas (1999) di Carlos Gamerro, scrittore
e critico mai tradotto in Italia.
Tanto Fogwill che Gamerro, con toni diversi e rifacendosi a generi
differenti (una sorta di realismo “sporco” il primo, una mescolanza di noir e
fantascienza il secondo), fanno uso di uno humor crudelissimo, quasi a
significare che la guerra delle Malvine, benché tragica, è stata in fondo una
farsa, e la loro satira spregiudicata dei luoghi comuni patriottici ha aperto
la strada a opere sempre più audaci. Per esempio a quelle di scrittori giovani
che spiccano per qualità e originalità in una produzione spesso diseguale, come
Carlos Godoy, con il suo La construcción (2014) in cui le
Malvine diventano semplici “macchie” dove ognuno vede ciò che vuole, o Patricio
Pron con l’irridente e sarcastico Una puta mierda (pubblicato una
prima volta nel 2007 e riproposto anni dopo col titolo di Nosotros
caminamos en sueños ), o Federico Lorenz, storico ma anche autore
di Montoneros o la ballena blanca, un romanzo polemico e complesso.
Ai loro testi, che si sovrappongono in modo definitivo alla narrazione
bellica proposta dalla giunta e intessuta di falsi trionfi, si è aggiunto nel
2012 un romanzo oggi tradotto in italiano da Massimo De Pascale per le edizioni
Elliot: Trasfondo (pag. 118 e. 16), terza prova letteraria di Patricia
Ratto – che, nata nel 1962, vive e lavora lontana dall’onnidivorante capitale
ed ha ambientato in provincia i suoi libri precedenti, Pequeños hombres
blancos e Nudos, in cui pure si affacciano guerra e
dittatura –, autrice sensibile ai richiami di una “biblioteca personale”
in cui non mancano Borges e Fogwill, Céline e soprattutto Kafka. Trasfondo,
termine che indica le profondità più remote e che l’editore ha felicemente
scelto di non tradurre, nasce da un brandello di guerra raramente raccontato,
la storia vera dell’ARA San Luis, piccolo e malconcio sottomarino che per
trentanove giorni pattugliò l’oceano, cercando di sfuggire alla flotta inglese
e tentando invano di contrastarla con siluri inefficienti. Una vicenda
ricostruita dall’autrice attraverso lunghe interviste e tre anni di ricerche,
compiute per documentarsi sulle ottocentosettantaquattro ore trascorse
ininterrottamente sott’acqua dai trentacinque tra marinai e ufficiali, e
concluse da un inglorioso ritorno a terra, avvenuto di notte e di nascosto,
perché, come tutti i reduci delle Malvine, anche gli uomini del sommergibile
erano l’inaccettabile simbolo di una sconfitta.
Eppure Trasfondo non è, come si potrebbe pensare, un semplice
romanzo di guerra, ma un testo pieno di sfumature, un racconto di mare dalle
atmosfere quasi conradiane, che, attraverso una scrittura precisa, nitida e di
una sobrietà assoluta, parla dell’attesa, della natura del tempo, della
disconnessione da ogni legame esterno (i marinai, condannati a una missione
inverosimile su un naviglio fantasma, non sanno quasi nulla di ciò che accade “fuori”,
dubitano di quel poco che riescono a sapere, e non arriveranno mai a vedere le
isole), sul sovvertimento dei sensi, là dove alla “cecità” del sottomarino si
accompagna il costante ascolto del sonar, o di cigolii e raschi e tonfi
minacciosi.
Gli odori dei corpi mal lavati, l’aria densa, l’umidità, le superficie
viscide o appiccicose, il freddo, il rotolare di piccoli oggetti che accompagna
scosse e oscillazioni, gli uomini rinchiusi in una placenta metallica,
rinchiusa a sua volta in tonnellate d’acqua gelida, ci arrivano grazie alla
voce narrante di Ortega, sottufficiale di sala macchine che, per ingannare quel
tempo dilatato e sospeso, legge in un libro malconcio, trovato casualmente a
bordo, la storia di una misteriosa creatura avida di carne e costruttrice di
cunicoli (anche il sommergibile non è, in fondo, un insieme di cunicoli?), in
cui altri lettori riconosceranno un racconto di Kafka, il postumo La tana.
Lotta, Ortega, con la propria memoria lacunosa o registrando i piccoli
misteri che punteggiano la vita quotidiana (un paio di scarponi che spariscono
e riappaiono, un vasetto di capperi che ruzzola avanti e indietro). Legge,
dorme e racconta i suoi sogni, percorre il sommergibile da poppa a prua e, in
quel via vai continuo e pigro, osserva ogni cosa: gesti, espressioni, suoni,
silenzi, ombre, patetiche feste di compleanno, uomini che non abbandonano il
giubbotto salvagente neppure per dormire, ansie, domande. Nulla gli sfugge:
unico a bordo, Ortega sa tutto, vede tutto, nel buio in cui il sommergibile si
immerge fino a toccare il fondo dell’oceano, ombra tra le ombre, in una guerra
che non arriverà a combattere e di cui i marinai non conoscono dimensioni e
vicende, così come le ignorano coloro che, a casa, ascoltano ogni giorno il
resoconto fasullo ordito dalla dittatura.
Non c’è poi troppa differenza, dunque, tra i cittadini avvolti nel bozzolo
delle menzogne di regime, articolate in episodi commoventi, gesti eroici,
annunci squillanti, e i marinai che, le rare volte in cui il periscopio spunta
dall’acqua nera, vedono solo buio e nebbia. Fino al momento in cui la guerra si
conclude com’era cominciata, di colpo e senza spiegazioni, e l’ARA San Luis
torna a galla, non senza che un sorprendente risvolto finale allontani il
racconto di Ortega dal suo minuto realismo quotidiano, mentre chi legge si
accorge all’improvviso dei tanti indizi rivelatori che gli erano sfuggiti, e
soprattutto di una domanda sotterraneamente insinuata sin dall’inizio: “è
possibile essere morti e non rendersene conto?”.
Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2018