venerdì 4 maggio 2018

Da leggere: Patricia Ratto



Patricia Ratto


Là dove l’oceano è più profondo, la storia dell’ARA San Luis 

Sono passati quasi quarant’anni dalla breve guerra che, tra l’aprile e il maggio del 1982, seguì all’invasione delle isole Malvine (piccolo arcipelago dell’Atlantico meridionale e sin dal 1833 territorio d’oltremare del Regno Unito, ma costantemente rivendicato dalla Repubblica Argentina), voluta dal generale Galtieri per occultare le difficoltà della giunta militare. E proprio come l’ultimo tentativo di sopravvivenza da parte della dittatura, cui la disastrosa sconfitta assestò il colpo finale, viene ancora oggi letto questo surreale episodio bellico: una lettura alla quale, però, se ne sono aggiunte e sovrapposte altre più complesse e articolate, che hanno dato vita a una vasta produzione documentaria e memorialistica e soprattutto a un fiume di romanzi e racconti, le cui opere fondanti restano Los Pichiciegos di Fogwill (Scene da una battaglia sotterranea, Sur 2011), scritto in presa diretta nel 1982 da uno dei più brillanti ed eterodossi fra gli autori argentini, e Las Islas (1999) di Carlos Gamerro, scrittore e critico mai tradotto in Italia.

Tanto Fogwill che Gamerro, con toni diversi e rifacendosi a generi differenti (una sorta di realismo “sporco” il primo, una mescolanza di noir e fantascienza il secondo), fanno uso di uno humor crudelissimo, quasi a significare che la guerra delle Malvine, benché tragica, è stata in fondo una farsa, e la loro satira spregiudicata dei luoghi comuni patriottici ha aperto la strada a opere sempre più audaci. Per esempio a quelle di scrittori giovani che spiccano per qualità e originalità in una produzione spesso diseguale, come Carlos Godoy, con il suo La construcción (2014) in cui le Malvine diventano semplici “macchie” dove ognuno vede ciò che vuole, o Patricio Pron con l’irridente e sarcastico Una puta mierda (pubblicato una prima volta nel 2007 e riproposto anni dopo col titolo di Nosotros caminamos en sueños ), o Federico Lorenz, storico ma anche autore di Montoneros o la ballena blanca, un romanzo polemico e complesso.

Ai loro testi, che si sovrappongono in modo definitivo alla narrazione bellica proposta dalla giunta e intessuta di falsi trionfi, si è aggiunto nel 2012 un romanzo oggi tradotto in italiano da Massimo De Pascale per le edizioni Elliot: Trasfondo (pag. 118 e. 16), terza prova letteraria di Patricia Ratto – che, nata nel 1962, vive e lavora lontana dall’onnidivorante capitale ed ha ambientato in provincia i suoi libri precedenti, Pequeños hombres blancos e Nudos, in cui pure si affacciano guerra e dittatura –, autrice sensibile ai richiami di una “biblioteca personale” in cui non mancano Borges e Fogwill, Céline e soprattutto Kafka. Trasfondo, termine che indica le profondità più remote e che l’editore ha felicemente scelto di non tradurre, nasce da un brandello di guerra raramente raccontato, la storia vera dell’ARA San Luis, piccolo e malconcio sottomarino che per trentanove giorni pattugliò l’oceano, cercando di sfuggire alla flotta inglese e tentando invano di contrastarla con siluri inefficienti. Una vicenda ricostruita dall’autrice attraverso lunghe interviste e tre anni di ricerche, compiute per documentarsi sulle ottocentosettantaquattro ore trascorse ininterrottamente sott’acqua dai trentacinque tra marinai e ufficiali, e concluse da un inglorioso ritorno a terra, avvenuto di notte e di nascosto, perché, come tutti i reduci delle Malvine, anche gli uomini del sommergibile erano l’inaccettabile simbolo di una sconfitta.

Eppure Trasfondo non è, come si potrebbe pensare, un semplice romanzo di guerra, ma un testo pieno di sfumature, un racconto di mare dalle atmosfere quasi conradiane, che, attraverso una scrittura precisa, nitida e di una sobrietà assoluta, parla dell’attesa, della natura del tempo, della disconnessione da ogni legame esterno (i marinai, condannati a una missione inverosimile su un naviglio fantasma, non sanno quasi nulla di ciò che accade “fuori”, dubitano di quel poco che riescono a sapere, e non arriveranno mai a vedere le isole), sul sovvertimento dei sensi, là dove alla “cecità” del sottomarino si accompagna il costante ascolto del sonar, o di cigolii e raschi e tonfi minacciosi.

Gli odori dei corpi mal lavati, l’aria densa, l’umidità, le superficie viscide o appiccicose, il freddo, il rotolare di piccoli oggetti che accompagna scosse e oscillazioni, gli uomini rinchiusi in una placenta metallica, rinchiusa a sua volta in tonnellate d’acqua gelida, ci arrivano grazie alla voce narrante di Ortega, sottufficiale di sala macchine che, per ingannare quel tempo dilatato e sospeso, legge in un libro malconcio, trovato casualmente a bordo, la storia di una misteriosa creatura avida di carne e costruttrice di cunicoli (anche il sommergibile non è, in fondo, un insieme di cunicoli?), in cui altri lettori riconosceranno un racconto di Kafka, il postumo La tana.

Lotta, Ortega, con la propria memoria lacunosa o registrando i piccoli misteri che punteggiano la vita quotidiana (un paio di scarponi che spariscono e riappaiono, un vasetto di capperi che ruzzola avanti e indietro). Legge, dorme e racconta i suoi sogni, percorre il sommergibile da poppa a prua e, in quel via vai continuo e pigro, osserva ogni cosa: gesti, espressioni, suoni, silenzi, ombre, patetiche feste di compleanno, uomini che non abbandonano il giubbotto salvagente neppure per dormire, ansie, domande. Nulla gli sfugge: unico a bordo, Ortega sa tutto, vede tutto, nel buio in cui il sommergibile si immerge fino a toccare il fondo dell’oceano, ombra tra le ombre, in una guerra che non arriverà a combattere e di cui i marinai non conoscono dimensioni e vicende, così come le ignorano coloro che, a casa, ascoltano ogni giorno il resoconto fasullo ordito dalla dittatura.

Non c’è poi troppa differenza, dunque, tra i cittadini avvolti nel bozzolo delle menzogne di regime, articolate in episodi commoventi, gesti eroici, annunci squillanti, e i marinai che, le rare volte in cui il periscopio spunta dall’acqua nera, vedono solo buio e nebbia. Fino al momento in cui la guerra si conclude com’era cominciata, di colpo e senza spiegazioni, e l’ARA San Luis torna a galla, non senza che un sorprendente risvolto finale allontani il racconto di Ortega dal suo minuto realismo quotidiano, mentre chi legge si accorge all’improvviso dei tanti indizi rivelatori che gli erano sfuggiti, e soprattutto di una domanda sotterraneamente insinuata sin dall’inizio: “è possibile essere morti e non rendersene conto?”.

 

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2018