Eduardo Mendoza
La Storia al servizio delle storie
Un giornalista di nome Rufo Batalla, uomo mediocre, abulico ed egoista,
proiettato da una Spagna prigioniera della decrepitezza di Franco in una
tumultuosa New York, alla fine degli anni ’60: ecco il protagonista
di El rey recibe (Seix Barral, pag. 368, e. 29,51) l’opera
più recente di Eduardo Mendoza, da pochi giorni nelle librerie spagnole. Primo
volume dell’annunciata trilogia Las tres leyes del movimiento, il
libro è un labirintico affresco del periodo tra la fine degli anni ’60 e
l’inizio dei ’70, che attraverso lo sguardo dell’attonito Batalla racconta le
contraddizioni della società nordamericana, i cambiamenti politici,
l’affacciarsi di nuove forme di espressione e di nuovi fenomeni sociali, il
tutto movimentato dal surreale incontro con il pretendente al trono di Livonia,
ignorato territorio baltico impermeabile alle avances del
cristianesimo e dedito all’esercizio di un tranquillo cannibalismo. Un romanzo
in puro stile Mendoza, insomma, con innumerevoli personaggi, trame intricate e
divagazioni che innestano nuove storie su quelle principali, una cura
straordinaria per il linguaggio e soprattutto un umorismo irriverente e
paradossale che è tra le caratteristiche più spiccate dell’autore e che gli
consente di leggere il mondo con contenuta e saggia disillusione.
Appena conclusa la presentazione dell’ultimo romanzo alla stampa spagnola,
Mendoza (Premio Cervantes nel 2017 e scrittore di grande e indiscusso
prestigio) sta per presentarne un altro, finalmente tradotto nonostante
risalga al 2010, ai lettori del Festivaletteratura di Mantova, dove sabato sera
parlerà con Giancarlo De Cataldo di Città sospesa. Madrid 1936 (DeA
Planeta Libri, pag. 472, traduzione di Francesca Pe’), vincitore a suo tempo
del Premio Planeta e che in italiano ha dovuto necessariamente cambiare titolo.
Quello originale, Riña de gatos, ovvero “zuffa di gatti”, rimanda
infatti a un cartone eseguito da Goya per un arazzo, in cui si vedono due
furibondi felini che si affrontano in cima a un muretto: e quei gatos (antico
soprannome dei madrileni) che stanno per darsi battaglia, rappresentano in
questo caso i partigiani del governo nato dal trionfo elettorale del Frente
Popular e coloro che invece aderiscono alla Falange fondata da José Antonio
Primo de Rivera.
La terribile zuffa è l’immediato preludio allo scontro che sta per
travolgere la Repubblica spagnola, come avverte quel “Madrid 1936” che completa
il titolo, dandoci la certezza di trovarci davanti all’ennesimo frutto della
sterminata letteratura sulla guerra civile spagnola: un romanzo storico sui
giorni convulsi che precedettero il colpo di stato di Francisco Franco. Bastano
poche pagine, però, per rendersi conto che la scelta di Mendoza è la stessa che
nel 1975 segnò il suo magistrale debutto con La verità sul caso Savolta
(Feltrinelli, 1995) – un’opera che secondo Javier Marìas “ha insegnato alla
maggioranza dei romanzieri venuti in seguito che cosa significava scrivere con
libertà” –, ovvero quella di affrontare l’argomento in un modo che si potrebbe
definire “laterale”, insinuando nel flusso della Storia personaggi al margine,
estranei al contesto in cui si muovono, inconsapevoli e
confusi, prigionieri delle loro piccole storie perfino quando il
caso o il destino li trasformano in protagonisti di vicende più grandi.
È quel che accade, per esempio, a Suor Consuelo in Gli anni del diluvio,
incantevole romanzo del 1992, o a Onofre Bouvila, rustico zappaterra catalano
che diventa un ricchissimo magnate grazie all’astuzia e al delitto, nello splendido
La città dei prodigi (1986), forse il più bel romanzo mai scritto su
Barcellona, dove Mendoza è nato nel 1943. Ed è quel che accade, soprattutto,
all’inglese ed esperto di arte spagnola del Siglo de Oro Anthony Whitelands,
straniero chiamato in Spagna per valutare la collezione d’arte di un gioviale
duca che vorrebbe venderla clandestinamente, in vista di una probabile
“rivoluzione” e del conseguente espatrio. Uomo convenzionale e un po’
sprovveduto, studioso competente dalle speranze sempre deluse, incerto e
timoroso dongiovanni, Whitelands possiede tutte le caratteristiche di un
“innocente all’estero” che non intende immischiarsi nelle vicende interne di
una nazione travagliata, ma che diventa l’ignara pedina di un gioco imperniato
sulla ricerca di un leggendario Velazquez, muovendosi (o, più di frequente,
venendo mosso) fra trame politiche e diplomatiche di cui nulla sa e nulla
capisce, come il detective inglese che in La novela número 13 di Wenceslao Fernández
Flórez, del 1942, si occupa stolidamente della ricerca di un
cavallo da corsa perduto nella Spagna repubblicana.
Con l’abilità di un narratore onnisciente e distaccato che, grazie a un
collaudatissimo mestiere, è capace di tenere insieme tutti i fili di un
racconto complesso, in cui trovano posto anche deliziosi excursus sulla storia
dell’arte, Mendoza fa muovere un’esuberante e ben caratterizzata folla di
personaggi in una Madrid disegnata strada per strada, con una minuziosa fedeltà
che si estende anche al linguaggio, ricco di espressioni locali e d’epoca:
comunisti, anarchici, falangisti, fascisti, diplomatici, aristocratici, spie
sovietiche, gendarmi, soavi prostitute, giovani marchese caustiche e
capricciose, mescolati a personaggi reali come José Antonio Primo de Rivera,
dandy sentimentale e vanitoso (più un memo – ossia uno stupido
– che un fanatico, spogliato da Mendoza
di ogni aura mitica), e poi Franco con il suo contorno di spietati generali, e
Manuel Azaña, ultimo e sconfortato presidente della Seconda Repubblica
Spagnola.
Il risultato è una narrazione colta e appassionante, piena di colpi di
scena e di avventure, punteggiata da materiali diversi (lettere, articoli di
giornale, schede segnaletiche), che rivisita e manipola più generi (la spy
story, il romanzo storico e quello sentimentale, il feuilleton che “aggancia”
ogni capitolo al seguente, e soprattutto il giallo, nel quale Mendoza è
maestro, come dimostrano i suoi polizieschi imperniati su Ceferino,
investigatore lumpen a lungo confinato in manicomio e poi avviato alla
professione di parrucchiere per signora), facendo uso di un umorismo
scintillante e sottile, del grottesco, della parodia o di un’immediata
comicità.
Per lo scrittore argentino Rodrigo Fresán, che di Mendoza è
ammiratore entusiasta e che lo accosta per più ragioni (tra cui la levità,
l’ironia e il desiderio di intrattenere) a Adolfo Bioy Casares, Città
sospesa, Madrid 1936 è “una sorta di pazzo vaudeville e di poliziesco
stravagante, adatto a ogni nazionalità e interesse”. Non si può negare,
tuttavia, che al di là della superficie brillante e dell’intreccio avvincente,
la visione di Mendoza sia improntata a un pessimismo consapevole e profondo,
che l’umorismo può temperare, senza negarlo o nasconderlo. Per capirlo davvero
il lettore dovrà arrivare alle ultime righe, quelle in cui, parlando del
quadro Las meninas, Whitelands lo descrive come una scena
quotidiana in cui appaiono bambine, serve, nani, animali e il pittore stesso,
ma, nello sfondo, le immagini dei sovrani riflesse nello specchio ci ricordano
l’esistenza di un potere che, inavvertito e quasi invisibile, controlla ogni
cosa.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018