Ricardo Piglia
Se critica e finzione si fondono e si confondono
Per Ricardo Piglia – uno dei più importanti e celebrati scrittori argentini, morto lo scorso anno – non esisteva il mercato, ma solo “una manipolazione della letteratura da parte della cultura di massa”, ed era per sfuggirle che preferiva trovarsi invariabilmente “fuori centro”, in qualche altrove. Un testo come Critica e finzione – oggi finalmente disponibile in italiano (Mimesis, pag. 207, e. 18, traduzione e prologo di Mirko Olivati, a cura di Massimo Rizzante, che è anche autore di una postfazione ricca di suggestioni), nonché il primo tra i suoi libri che possiamo inscrivere in una produzione saggistica senza dubbio eterodossa, ma fondamentale – si potrebbe leggere anche così, come uno sberleffo al mercato: impadronirsi di uno strumento che caratterizza i mass media, usato ormai dagli scrittori soprattutto per promuoversi, e farlo diventare una macchina critica e narrativa al tempo stesso, il luogo di un dibattito in cui è l’interrogato a porre più domande dell’interrogante. Uno spazio in cui costruire, insomma, piuttosto che un vuoto rincorrersi di echi.
Del resto, critica e finzione si trovano da sempre intrecciati e mescolati nella produzione dello scrittore argentino, a partire da L’invasione (Sur, 2015), prima raccolta di racconti del 1967, a Solo per Ida Brown, il suo ultimo romanzo (Feltrinelli, 2017), a L’ultimo lettore, (Feltrinelli 2007), fino a oggi unica traduzione del Piglia critico: una riflessione sui modi e i significati della lettura che l’editore spagnolo e quello italiano hanno inserito nelle loro collane di narrativa, come per sottolineare la costante ibridazione presente in tutta l’opera dell’autore, i cui saggi mostrano robuste incrostazioni finzionali, mentre racconti e romanzi sono densi di argomentazioni teoriche.
Critica e finzione si presenta come una raccolta di interviste scelte e riunite da Piglia per pubblicarle una prima volta nel 1986, e poi nel 2001 con l’aggiunta di altri diciotto testi; ma in realtà queste “conversazioni fittizie” (così le definisce lo scrittore in una nota finale) si rivelano brani di critica letteraria elaborati a partire dalla domande altrui. E sin dal titolo è chiaro che allo scrittore non interessano gli spazi “puri”, ma le mescolanze e le contaminazioni, la molteplicità delle letture e delle interpretazioni, la cancellazione di confini troppo rigidi.
Modificando e “lavorando” le risposte, Piglia si riappropria totalmente dei testi, senza disconoscere il ruolo degli interlocutori (a volte bravi giornalisti culturali, oppure critici illustri come Sarlo, Altamirano, Speranza, Dámaso Martínez, o scrittori come Alan Pauls e Jorge Halperin), mantenendo la tensione del dialogo e il tono dell’oralità, rilanciando domande e seminando dubbi. Il libro diventa così un oggetto inclassificabile e ben più ambizioso; come fa notare Rizzante, Piglia affida alla riscrittura delle risposte “il compito di fornire alcuni strumenti indispensabili per comprendere a fondo le sue opere narrative, di presentare la sua idea di letteratura inserendola in una tradizione precisa e di indicare gli scrittori che costituiscono la sua costellazione letteraria”.
Le interviste sembrano ordinate in base allo loro complessità e, man mano, le risposte si fanno più lunghe ed elaborate, incatenando un capitolo all’altro e conferendo sostanziale unità a un discorso in apparenza frammentario, che tocca temi diversi e fa emergere le ossessioni coltivate dall’autore, sempre in cerca di nuovi modi per dialogare con la tradizione letteraria, in primo luogo quella argentina, non a caso segnata dal magnifico peccato originale del Facundo di Domingo Faustino Sarmiento, libro fondativo “che unisce il saggio, il pamphlet, la finzione, la teoria, il racconto di viaggio, l’autobiografia”. È una simile genealogia che consente a Piglia di includere la critica nella finzione e viceversa, facendo di questo incrocio la base del proprio lavoro e sovrapponendogli più strati: l’autobiografia, il poliziesco, la politica, la falsificazione, l’intertestualità, fino a creare un ampio spazio metaletterario.
A dar voce alle sue idee e intuizioni, nei romanzi e nei racconti, è quasi sempre Emilio Renzi, alter ego apparso per la prima volta in L’invasione, e protagonista-autore della finzione autobiografica dei Diari, segreto laboratorio di scrittura affiorato solo in anni recenti (l’ultimo dei tre volumi è stato pubblicato dopo la morte dell’autore), ma la cui stesura ha avuto inizio durante l’adolescenza di Piglia. È il giovane Renzi che in Respirazione artificiale (Sur, 2012), traccia con notevole vis polemica una quasi-storia della letteratura argentina, ridefinendo il canone rioplatense a partire dal trio Borges-Macedonio Fernández-Roberto Arlt, mentre il suo interlocutore Tardewski, trasparente doppio di Witold Gombrowicz, narra la propria scoperta di un presunto incontro a Praga tra Kafka e Hitler. E se la scrittura della critica può rientrare nella sequenza narrativa di un simile romanzo e del successivo La città assente (Sur, 2014), e insinuarsi persino nel finale di un noir perfetto come Soldi bruciati (Feltrinelli, 2008), la narratività ha pieno diritto, a sua volta, di inserirsi nel discorso critico.
Gli stessi temi ed argomenti vengono modulati nelle risposte di Critica e finzione, visto che le conversazioni, “replica immaginaria di un’esperienza reale”, li ripropongono in modo suscettibile di sempre nuovi sviluppi: Borges come lettore ideale (ma anche come critico eterodosso e autore da sottoporre a una lettura politica che ne metta in risalto il lato eversivo); Macedonio Fernández, eletto ad autentico fondatore della moderna letteratura argentina; Arlt, l’irriducibile ribelle che oppone il suo racconto violento e rivelatore a quello onnipervasivo dello Stato, macchina per “far credere” messa in moto dallo stretto legame tra politica e finzione. E poi Joyce, Kafka, Hemingway, Faulkner, gli scrittori nordamericani, i formalisti russi; la Storia intesa come rete di narrazioni (non a caso Piglia decise di laurearsi in Storia e non in letteratura, convinto che quest’ultima non si potesse “classificare e ordinare”); il critico-detective che indaga sullo scrittore-criminale; la lettura come strumento di costruzione della letteratura; il fondamentale esercizio della critica da parte dello scrittore, il cui sguardo differisce fruttuosamente da quello dell’Accademia. Non mancano, com’è ovvio, brandelli di autobiografia, e nemmeno innumerevoli riferimenti al poliziesco, genere con il quale Piglia ha familiarizzato sin da giovanissimo, riconoscendolo come uno dei grandi modi di narrare e venendone profondamente influenzato, tanto che la sua opera, “senza essere poliziesca in senso stretto, approfitta del genere e se ne serve per sviarlo e trasgredirlo”, scrivono Lafforgue e Rivera in Asesinos de papel.
Di speciale interesse è, infine, il complicato rapporto tra letteratura e mercato, e il modo in cui lo scrittore sceglie di mettersi in relazione con quest’ultimo. Piglia, che, come fa notare in una delle sue risposte, non viveva della sua scrittura ma dell’insegnamento in varie università (ultima quella di Princeton) e di collaborazioni con l’editoria, aveva scelto di stare nel mercato “senza starci”, prendendosi cioè lunghe pause di invisibilità, preferendo il rischio di essere dimenticato a quello di produrre un romanzo all’anno per soddisfare esigenze commerciali e confermarsi come un “marchio” riconoscibile, e infine lasciando un potente gruppo editoriale come Planeta per un editore più piccolo, che però rispettava i suoi tempi e gli consentiva di scrivere e riscrivere, correggendo all’infinito.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2018