“Non è la storia che cercavi: è quella che ho”
Fu nel 1910 che
Francisco Madero, tenace oppositore del regime di Porfirio Díaz (presidente/dittatore
del Messico per trentacinque anni) fece scoccare la prima scintilla della Rivoluzione,
invitando il popolo a prendere le armi. A lui si unirono Francisco Villa, Emiliano
Zapata, Venustiano Carranza e altri ancora, e nel 1911 Díaz fu costretto a un esilio
senza ritorno, mentre Madero veniva assassinato dal suo luogotenente Victoriano
Huerta e scoppiava una nuova rivolta guidata da Zapata e Villa: la Rivoluzione aveva
cominciato a divorare se stessa e qualche anno dopo si sarebbe incanalata nell’alveo
ambiguo del PRI, partito di governo dal 1929 al 2000.
Attorno alla Rivoluzione,
ai suoi trionfi e alle sue convulsioni, è nata negli anni una narrativa di stampo
epico (letta da molti, criticata da alcuni e presa adeguatamente in giro da altri,
come l’irresistibile Jorge Ibargüengoitia), ma pochi si sono azzardati a raccontare
un episodio come quello avvenuto nel 1911 a Torreón, cittadina fondata quattro anni
prima nel nordest del paese, dove i maderisti avevano messo in fuga l’esercito governativo.
Subito dopo l’ingresso in città, le truppe di Madero si scagliarono con violenza
inaudita contro la prospera comunità cinese, parte importante quanto silenziosa
del complesso mosaico torreonese di nazionalità e culture, e, con il consenso e
la partecipazione di buona parte degli abitanti, ne saccheggiarono le case, le terre
e le botteghe. Almeno trecentotre persone, quasi tutte originarie di Canton, vennero
selvaggiamente assassinate e i cadaveri, smembrati dai machete, gettati giù dalle
terrazze, trascinati lungo le strade, furono infine sepolti in una fossa comune,
fuori dal cimitero.
Proprio a questa
vicenda si rifà La casa del dolore altrui
(gran vía, pag. 314, e. 17) che, nell’eccellente traduzione di Francesco Fava, sarà
in libreria da domani, a confermare la sorprendente bravura di Julián Herbert, scrittore
e poeta, ma anche critico, saggista ed ex leader di gruppi rock come Los Tigres
de Borges e Madrastras. Nato ad Acapulco nel 1971, ma da anni residente
a Saltillo, non lontano da Torreón, negli ultimi dieci anni Herbert si è imposto
come un narratore capace di attraversare generi diversi, cucendoli insieme grazie
alla cosiddetta “letteratura dell’io” oggi di moda, piegata però a un’estetica esigente;
nella sua produzione spiccano i racconti di Cocaína (manual de usuario),
del 2006, il recentissimo Tráiganme la cabeza de Quentin Tarantino, e un
romanzo potente e insolito come Ballata per
mia madre (gran vía, 2014), in cui rievoca la vita e la morte della madre prostituta,
i difficili giorni dell’infanzia, l’accidentato procedere verso la maturità: una
mirabile reinvenzione della propria esperienza giocata su tutti i registri, dalla
rabbia al lamento all’umorismo più nero.
Adesso, con La casa del dolore altrui, Herbert esplora
nuove strade in un’opera che è allo stesso tempo cronaca travolgente, saggio, indagine
storiografica, romanzo, reportage, mettendosi in scena come personaggio-narratore
che insegue una storia sentita da ragazzo, quando gli avevano raccontato che l’autore
del massacro di Torreón era Pancho Villa. Molto tempo dopo, lo storico Carlos Valdés
gliela riporterà alla mente, facendogli notare che, per quanto radicata e diffusa,
la tradizione orale era falsa, perché in quei giorni il leggendario generale stava
assediando Ciudad Juárez: una discrepanza sufficiente a indirizzare la curiosità
dello scrittore verso una vicenda che attendeva da sempre di essere raccontata in
un altro modo. Così, grazie a una lunga e accuratissima ricerca, Herbert ha rintracciato
e utilizzato fonti di ogni genere: libri di Storia, aneddoti, materiali di archivio,
fotografie, libelli, memorie, canzoni, voci che corrono, comprese quelle dei tassisti
di Torreón (quattro “intermezzi” ce le propongono come una sorta di coro greco),
inserendo nel racconto spezzoni della propria vita quotidiana e rivelandoci via
via i meccanismi e il “farsi” della propria scrittura.
Oltre alla descrizione
asciutta e precisa della mattanza, lo scrittore esamina i fatti che la precedono
e la seguono, disegna i ritratti di tredici dei protagonisti, ricostruisce la storia
dell’emigrazione cinese e soprattutto dimostra che la rabbiosa xenofobia verso gli
orientali aveva radici profonde, precedenti all’arrivo dei maderisti. Il “piccolo
genocidio” (così lo chiama Herbert, con ironia) nacque in buona parte dalla propaganda
di movimenti come quello di Ricardo Flores Magón, che accusava i cantonesi di rubare
il lavoro ai nativi e, ancora prima, dai racconti a sensazione di marinai, mercanti,
missionari, in cui i sudditi del Celeste Impero apparivano come poligami, pagani,
subdoli, torturatori, lussuriosi… Un’aura quasi demoniaca aveva accompagnato la
prima ondata migratoria dei cinesi in America, a metà del XIX secolo, e all’ostilità
per una differenza percepita come minaccia e incomprensibile si era aggiunto il
timore che gli orientali, fornitori di mano d’opera a buon mercato ma anche abili
commercianti, rappresentassero un pericolo per gli interessi americani.
Non è improbabile,
suggerisce Herbert, che le oscure leggende sui cinesi fossero arrivate in Messico
attraverso i figli delle élites locali, studenti negli Stati Uniti, e che il regime
di Porfirio Díaz – incline alle teorie eugenetiche e pronto a considerare “desiderabili”
solo i migranti europei – se ne fosse nutrito. Il pogrom fu, insomma, il risultato
della diffidenza e del disprezzo ormai incistati nell’immaginario collettivo e a
fare da detonatore fu una voce (quella, falsa, di una sparatoria dei cinesi contro
i rivoluzionari) che si sparse in un attimo, senza che nessuno si fermasse a verificarne
l’autenticità. In seguito, le indagini ufficiali si preoccuparono soprattutto di
imporre una “verità” che calunniava le vittime, dava ragione ai soldati, falsificava
le dichiarazioni dei testimoni oculari, per il buon nome della Rivoluzione e del
Messico. Strutturato in sequenze, quasi come un copione cinematografico, il testo
funziona non solo per ciò che racconta, ma per il modo in cui lo fa. Con una scrittura
brillante e di grande efficacia, ricca di immagini memorabili (“Immaginavo gli spettri
di 303 cinesi che percorrono – con i piedi nudi, bruciati dall’asfalto – le strade
di una città che neppure li conosce. L’oblio è più vicino di noi alla natura”),
Herbert attinge a materiali diversissimi, accostando i documenti alla voce parallela
della cultura popolare e, un capitolo dopo l’altro, collega il passato al presente,
per sottolineare sia le origini remote della violenza che è ormai il marchio di
fabbrica del suo paese, sia la contraddizione tra la protesta per la discriminazione
e il razzismo subiti dai messicani negli USA e il trattamento feroce riservato ai
fuggitivi centroamericani, lasciati in balìa della delinquenza organizzata. Ci viene
anche svelato, alla fine, il mistero del titolo: “Casa del dolore altrui” è il nome
che gli abitanti della zona danno al loro stadio, alludendo all’imbattibilità della
squadra locale nelle partite giocate in casa. Un nome che è, secondo l’autore, una
perfida parodia della tradizionale ospitalità messicana: “la mia casa è la tua…
ma solo per farti male”.
Per comporre un
testo del genere, in cui coesistono la situazione della Cina tra la fine del XIX
secolo e l’inizio del XX, la squadra del Santos Laguna, gli scenari domestici dell’autore,
il cartello degli Zetas, le varie forme del capitalismo, infinite citazioni letterarie
(Paz, Sada, Pacheco, Sarduy e molti altri si aggirano in queste pagine), la musica
pop e l’arte d’avanguardia, i film americani e i corridos, le manipolazioni
della verità da parte del potere, il selvatico proliferare dei rumeurs e
il silenzio delle vittime, l’ironia e il terrore, occorrono una vasta cultura, un’enorme
capacità narrativa e una profonda consapevolezza politica: sarebbe impossibile,
altrimenti, ottenere una simile qualità formale e insieme chiedere al Messico di
guardarsi in uno specchio spaventoso. “Questa non è la storia che cercavi: è quella
che ho” ci dice lo scrittore. E la usa. La usa per stabilire un dialogo serrato
e doloroso con il suo paese, ma anche con tutti noi, che navighiamo a vista in acque
sempre più buie.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2018