Leonora Carrington
Un’inglese in Messico: la vita straordinaria di Leonora Carrington
Quando, negli anni
’50, qualcuno chiese a Leonora Carrington se esisteva un momento storico che apprezzasse
in modo particolare, rispose: “Quasi nessuno, o forse sì. C’è un momento storico
che mi piace. Per esempio la Caduta del Patriarcato, che accadrà nel XXI secolo”.
Morta a Città del Messico nel 2011, l’artista anglo-messicana ha avuto il tempo
di constatare che, almeno in questo inizio secolo, il patriarcato gode ancora di
ottima salute. Lei, però, nel corso dei suoi novantaquattro anni di vita l’ha combattuto
a ogni istante, già molto tempo prima di contribuire alla fondazione del Movimiento
de Liberación de la Mujer messicano: sin dall’infanzia trascorsa nel Lancashire,
dov’era nata in una ricca famiglia di industriali, la sua rivolta contro i tradizionali
ruoli femminili era stata clamorosa e assoluta.
Tanto il padre,
il potente Harold Carrington, primo azionista della Imperial Chemical Industries,
quanto la madre Maurie, che, secondo l’uso dell’epoca, demandava la cura della prole
alla servitù, non riuscirono mai a domare la loro secondogenita, ben più “virile”
dei tre figli maschi: Leonora, detta Prim, era una bambina audace e insubordinata,
la cui immaginazione si nutriva di fiabe e leggende celtiche narrate dalla nanny
irlandese, e ingaggiò con i genitori una guerra all’ultimo sangue. Espulsa da collegi
religiosi via via più rigidi, sgradita ospite dell’elegante istituto di Miss Penrose,
a Firenze, e infelicemente presentata a Corte in un sontuoso abito di raso, nel
1936 la diciannovenne Leonora riuscì infine a frequentare l’accademia d’arte del
“purista” Amédée Ozenfant e, conosciuto Max Ernst durante un omaggio londinese
al già celebre pittore, fuggì con lui a Parigi.
Grazie al tuffo
senza rete nell’universo surrealista, in cui Ernst l’aveva introdotta, Leonora conquistò
davvero la libertà così furiosamente desiderata? Non proprio: il gruppo che ruotava
intorno ad André Breton aveva in serbo per le donne altri ruoli codificati, altri
stereotipi. Whitney Chadwick, autrice di Mirror Images: Women Surrealism,
and Self-Representation, nonché di Leonora Carrington: la realidad de la
imaginacion, fa notare che “nessun movimento artistico, a partire dal
Romanticismo, ha elevato la donna a un ruolo altrettanto centrale nella vita creativa
dell’uomo, come ha fatto il surrealismo”, ma si affretta a sottolineare che i surrealisti
la consideravano una pura proiezione del desiderio maschile: musa, femme fatale
e oggetto erotico, oppure femme-enfant tutta istinto, tramite ideale con
l’irrazionale, l’occulto, il sogno.
Molti anni dopo,
Carrington confesserà: “André Breton e gli uomini del gruppo erano molto maschilisti,
ci volevano solo come muse folli e sensuali, per divertirli, per soddisfarli”. E
ancora: “Essere una donna surrealista significava, per lo più, preparare la cena
per gli uomini surrealisti”. Ma era proprio un perfetto esemplare di femme-enfant
che Ernst vedeva in Leonora, tanto da descriverla così nella prefazione a La
Dame Ovale: ecco la “sposina del vento”, una bambina che non ha letto nulla,
che addirittura non sa leggere, eppure siede, con un libro in mano, tra animali
che le si avvicinano senza timore. E se contro la propria famiglia Leonora si era
rivoltata con la rabbia cieca che nasce dalla disparità di forze e dall’impotenza
infantile, la ribellione nei confronti del nuovo “padre” (Ernst aveva quasi trent’anni
più di lei, e fama e prestigio gli conferivano un solido ascendente) fu rallentata
dai mille lacci dell’amour-passion e dal timore dell’abbandono, poiché l’amante
era ancora sposato con Marie-Berthe Aurenche, fragile e bigotta, che, nonostante
Max e Leonora convivessero in una casetta nel sud della Francia, a Saint-Martin-de-Ardèche,
continuava a reclamare il ritorno del marito.
Eppure le tracce
di una crescente consapevolezza e l’affiorare del rigetto verso il ruolo che le
era stato assegnato (“Non avevo tempo per essere la musa di nessuno. Ero troppo
occupata a ribellarmi alla mia famiglia e a imparare a essere un’artista”, dirà),
si avvertono con chiarezza nei racconti che Leonora aveva cominciato a scrivere
proprio a Saint-Martin, “paternamente incoraggiata” da Ernst: una produzione esigua,
quella letteraria, se la si paragona alla mole di dipinti, sculture, tessuti, oggetti,
gioielli, creati nel corso di una vita lunghissima. Raccolte per la prima volta
nel 2017 in The Complete Stories of Leonora Carrington dalla Dorothy Publishing
Project (una piccola casa editrice americana che pubblica solo testi scritti da
donne), le venticinque short stories appaiono ora in italiano presso Adelphi (La debuttante, pag. 179, e. 17, traduzione
di Nancy Marotta e Mariagrazia Gini), ed è probabile che quelle prodotte negli anni
’30 riserveranno qualche sorpresa perfino agli appassionati lettori di The Hearing
Trumpet (Il cornetto acustico, Adelphi
1984), scritto in Messico quando l’autrice era ormai sulla quarantina. A differenza
dei racconti databili fra il 1937 e il 1940, Il cornetto acustico è, infatti, frutto di un sostanziale superamento
del surrealismo, come dichiarò Carrington a Silvia Cherem: “Anche se le idee dei
surrealisti mi attiravano, non mi piace che oggi mi classifichino come surrealista.
Preferisco essere femminista. (…) Inoltre il mio orologio non si è fermato in quel
momento, sono vissuta solo tre anni con Ernst e non mi va che mi costringano nel
ruolo di stupida. Non sono vissuta sotto l’incantesimo di Ernst: sono nata con la
mia vocazione e le mie opere sono soltanto mie”.
E’ piuttosto nei
racconti appartenenti alla sua “seconda vita” che si intravedono punti di contatto
con il romanzo, traboccante di umorismo, di allusioni alla mitologia celtica ed
egiziana, di incantesimi e leggende, rituali segreti e bric-à-brac alchemici. Attraverso
la vicende di due eccentriche vegliarde, Il
cornetto acustico narra il ritorno a un universo retto da un principio femminile
(la Grande Madre in tutte le sue incarnazioni, la Dea Bianca di Robert Graves, la
cui lettura aveva avuto tanta importanza per Leonora), ed è allo stesso tempo una
celebrazione dell’amicizia con la pittrice spagnola Remedios Varo: uno di quegli
insostituibili legami tra donne fondati non solo sull’affinità e l’affetto, ma sul
riconoscimento della rispettiva autorevolezza, che, secondo la storica dell’arte
Linda Nochlin, permise a ciascuna di “trovare sé stessa”, ma di farlo “insieme”.
Prima di poter
scrivere un testo così ricco e profondo e al tempo stesso ilare e lieve, Carrington
visse una vera e propria discesa agli inferi: la seconda guerra mondiale, l’internamento
dell’ebreo Ernst in campo di concentramento, un folle viaggio senza di lui attraverso
la Spagna, dove la longa manus della famiglia la raggiunse, trascinandola, sedata
e quasi incosciente, in una clinica per malattie mentali di Santander, in cui trascorse
mesi atroci e fu sottoposta a trattamenti inumani (un’esperienza rievocata nel breve
e terribile Down Below, apparso in italiano col titolo Giù in fondo, Adelphi 1979). Solo grazie
al matrimonio di convenienza con il poeta e diplomatico messicano Renato Leduc,
che le permise di lasciare l’Europa in guerra e di evitare la partenza per il Sudafrica,
dove i Carrington intendevano rinchiuderla definitivamente in manicomio, Leonora
approdò a quella che sarebbe diventata la sua nuova patria, il Messico, e là incontrò
qualcuno che aveva alle spalle un inferno anche peggiore del suo: Chiki Weiss, fotografo
ungherese di poverissima famiglia ebrea, cresciuto in orfanotrofio, scampato al
lager tedesco e fuggito a piedi attraverso l’Europa, amico fraterno di Robert Capa,
nonché colui che aveva messo al sicuro i negativi di Capa e Gerda Taro contenuti
nella famosa maleta mexicana. Non le chiedeva, Chiki, di essere altro che
sé stessa, non le era padre ma compagno, riconosceva il suo diritto di vivere a
modo proprio, e insieme ebbero due figli amatissimi: il matrimonio durò sessantaquattro
anni, anche se ciascuno fece i conti sino alla fine con le proprie cicatrici.
Leonora, dunque,
era stata una bambina furibonda, una ragazza ribelle, una musa riluttante, una prigioniera
dell’istituzione psichiatrica, per poi rinascere a nuova vita, dopo la morte simbolica
provocata dal Cardiazol e la fine del rapporto con Ernst. Ma non si era mai piegata
a niente e a nessuno, e, sentendosi “l’autrice di un’altra realtà” più che una surrealista,
aveva cominciato a lavorare su un immaginario femminile e femminista, sul rapporto
tra le donne e i segreti perduti che desiderava recuperare e a proposito dei quali
scrisse, nel ’76: “Le donne non dovrebbero reclamare i loro Diritti. I Diritti erano
lì sin dal principio, quello che dobbiamo fare è Recuperarli di Nuovo, includendo
i misteri che ci appartenevano e che furono violati, rubati o distrutti, lasciandoci
con l’ingrato compito di compiacere il maschio della nostra specie”.
I suoi scritti,
spesso “a chiave” e ispirati a quel che le accadeva o alle persone che incontrava,
amava, odiava, si popolano di personaggi femminili così decisi a conquistare o salvaguardare
l’indipendenza, da pagare volentieri il prezzo dell’isolamento e del rifiuto, o
da affrontare la morte. I primi racconti si rifanno ai ricordi d’infanzia e adolescenza,
e sono una feroce parodia dell’alta società inglese, oltre che una sorta di allegorica
vendetta nei confronti dei genitori. In La
dama ovale assistiamo alla metamorfosi della giovane Lucrezia, che in forma
di cavallo si rotola nella neve, e alla messa in scena della rottura con un padre
crudele, ma anche di quella con Ernst: entrambi tentano di “contenere” la fanciulla
artista, uno attraverso rigide norme sociali, l’altro rinchiudendola nel ruolo di
musa, o di bambina da manipolare con l’offerta di una libertà illusoria.
In La debuttante, Leonora esibisce il suo rifiuto per l’imposizione dei canoni
di una femminilità “accettabile”: al ballo organizzato in suo onore viene sostituita
da una iena, che ne indossa gli abiti e nasconde il muso sotto il volto di una domestica
uccisa e sbranata per l’occasione. Macabra e sinistramente umoristica, la storia
esprime anche un’estraneità profonda, che oppone alla “civiltà delle buone maniere”
l’irruzione di un elemento selvaggio e incontrollabile, espresso dal tremendo odore
della iena, pronta a fuggire dalla finestra dopo aver divorato la faccia-maschera.
Esiste un autoritratto del 1938, oggi al Metropolitan Museum, in cui La dama ovale e La debuttante sembrano incrociarsi: davanti a una Leonora dalla chioma
indomabile e dall’aspetto androgino sta una iena che espone mammelle esageratamente
femminili, quale provocatorio insulto al “buon gusto”; in alto, appeso alla parete,
l’amato cavallo a dondolo che, nel racconto, il padre di Lucrezia brucia senza pietà,
mentre all’esterno, inquadrato dalle tende dorate di una finestra, un cavallo bianco
corre libero, senza briglie né sella.
L’ordine reale e Zio Sam Carrington sono due autentici
sberleffi, uno al potere esercitato con un’assenza di scrupoli che sfocia in un
cruento e comico regicidio, e l’altro all’ipocrisia della buona società, con due
impeccabili zitellone pronte a eliminare i parenti impresentabili della gente comme
il faut. Vola, piccione!, Le sorelle o Il settimo cavallo sono invece visioni oniriche riferibili al rapporto
con Max Ernst, in cui le protagoniste si ritrovano chiuse in un mondo claustrofobico
e spesso nascondono la loro autentica personalità per compiacere un personaggio
maschile più anziano, riflettendo le sensazioni della Leonora reale; in Le sorelle, per esempio, Drusilla, innamorata
alla follia dell’ex re Jumart, tiene prigioniera la sorella Juniper, candida vampira
alata che però riesce a fuggire: e mentre Drusilla è stretta tra le braccia di Jumart
(la cui testa è ornata, in modo più che significativo, dalla carcassa di un pavone),
Juniper banchetta col sangue di una serva e poi vola nel cielo notturno, verso la
luna… Nel delirante, sensuale e fiabesco “Mentre andavano lungo il margine” si percepisce
invece l’eco del timore di perdere l’amante, e la femminilità sfrenata di Virginia
Fur, “donna selvatica”, quasi una dea della natura che cavalca con perizia un’enorme
ruota, seguita da un corteggio di animali, infuria contro un trasparente alter ego
di Marie-Berthe. Ed è in “Un uomo innamorato” che possiamo trovare una spietata
presa in giro del maschilismo surrealista: le due donne della storia – una ladra
di meloni e una moglie che si consuma in una sorta di animazione sospesa – sono
ridotte al silenzio, la prima in quanto ascoltatrice coatta, la seconda in qualità
di cadavere vivente, vittima della cecità e del letale talento del marito.
In Il settimo cavallo, del 1940, l’animale totem
di Leonora, simbolo di libertà, sensualità e forza, appare per l’ultima volta, e
con esso scompaiono per sempre la femme-enfant e il suo latente desiderio
di fuga: a prenderne il posto è la donna artista, che ha sciolto il legame tra il
suo nome e quella di Ernst. Una rinuncia al passato che in “L’attesa”, scritto,
come Il settimo cavallo, nel periodo trascorso
a New York prima del trasferimento in Messico, quando la coppia Carrington-Leduc
si incontrò con quella formata da Ernst e Peggy Guggenheim, viene ammessa e dolorosamente
accettata (il passato può morire, dice nel racconto Margaret/Leonora, “se il presente
gli taglia la gola”).
I racconti “messicani”,
come Le mie mutande di flanella, Un uomo neutro, Mia madre è una vacca, Una favola
messicana e pochi altri, mostrano come la cultura mesoamericana abbia arricchito
Leonora, contribuendo alla nascita di una mitologia personale fitta di simboli arcani,
già favorita da un forte interesse per l’alchimia e dall’inestinguibile impronta
celtica. Carrington continua a scrivere storie in cui animali, creature fantastiche,
mostri e spettri (tra i suoi autori preferiti c’era, non a caso, Montague Rhodes
James) convivono con gli esseri umani, la realtà è capricciosamente mutevole, la
natura enigmatica, densa di meraviglie e a volte minacciosa: racconti ancora pieni
di ombre, di personaggi con un’identità ibrida, di provocazioni, della presenza
frequente e quasi amichevole della morte, ma resi meno foschi da un’accentuata ironia
e dall’esercizio di una comicità inequivocabile.
Sempre concisa,
spesso violenta e poetica, basata su libere associazioni di immagini, la prosa di
Carrington sostiene a perfezione storie che sfidano la logica e le strutture convenzionali
del narrare, che non si curano di arrivare a una conclusione e sciorinano un patrimonio
di citazioni pittoriche e letterarie, da Alice all’antichissima collazione di enigmi
e parabole contenuti nelle Venticinque storie
dello spettro del cadavere della tradizione indiana. L’accostamento che viene
spontaneo, leggendo queste short stories mai veramente prese in considerazione dalla
critica (forse spiazzata dalla lingua irregolare e dalla ruvidezza della scrittura),
è quello con un autore che probabilmente Leonora Carrington non ha mai conosciuto
né letto, ossia Juan Rodolfo Wilcock (del quale, certo, non possedeva la perfezione
di stile e linguaggio) ma anche con Marosa di Giorgio, grande poetessa uruguayana
creatrice di ibridi e mostri. La tardiva apparizione di questo corpus sorprendente
– da leggersi avendo sott’occhio i quadri di Carrington, per la quale raccontare
dipingendo o scrivendo era quasi la stessa cosa – potrà forse attirare la dovuta
attenzione su una delle più straordinarie e insolite artiste vissute a cavallo degli
ultimi due secoli, ampiamente rivalutata, finora, solo come pittrice e scultrice.
Peccato, però,
che l’edizione Adelphi non contenga alcune informazioni che avrebbero interessato
i lettori: sorvola, per esempio, sul fatto che Leonora scrisse alcuni dei suoi racconti
in inglese, altri in francese, lingua comune tra lei e Ernst, altri ancora in spagnolo,
e che i testi in queste due ultime lingue contengono errori di ortografia e sintassi,
ognuno dei quali aggiunge sapore a storie già di per sé stravaganti (e infatti Henri
Parisot, suo primo editore, si guardò bene dal correggerli). Non vengono neppure
segnalate la datazione dei racconti (tre dei quali inediti) e il fatto che i cinque
raccolti nella plaquette La dame ovale (Editions GLM, 1939) fossero illustrati
dai collages di Ernst, il che inserisce il libriccino in una pratica estetica cara
ai surrealisti, quella della collaborazione interartistica. Sono proprio i collages
a permetterci di misurare ancora una volta la natura della relazione tra Ernst e
Leonora: nessuna delle immagini ha il minimo rapporto con i racconti, ma rinvia
ad altre opere del pittore, e questo totale scollamento tra segno e scrittura, forse
voluto, forse casuale, non può non apparire come una manifestazione di affettuosa
condiscendenza da parte del maturo mentore verso la sua incantevole femme-enfant.
Quando si ritrovarono, prima a Lisbona e poi a New York, si sa che Ernst chiese
a Leonora di restare con lui, ma inutilmente: lei si disponeva ormai a vivere un’altra
vita, in un paese che l’avrebbe adorata, dipingendo instancabilmente e sognando
“di vivere almeno fino a cinquecento anni, e poi morire per evaporazione”.
Questo articolo è apparso su Alfabeta 2 nel dicembre del 2018