Nicanor Parra
L’antipoesia di un funambolo centenario
Professore di letteratura ispanoamericana
all’Università di Madrid, poeta e saggista, l’inglese Niall Binns è stato,
insieme a Ignacio Echeverrìa, curatore dei due volumi di Nicanor Parra. Obra
completa & algo + (Galaxia Gutenberg, 2006-2011), nonché di testi e
antologie dedicati al grande cileno, il cui corpus poetico, così ricco
di sorprese, sembra ancora capace di eludere con un guizzo il bisturi dei
critici. Ed è Binns a ricordarci, in uno scritto recente, la vitalità dell’uomo
e del poeta: “La vecchiaia di Nicanor Parra (morto nel gennaio del 2018 a 103
anni) è doppiamente interessante: da una parte pochi poeti – e forse nessuno –
hanno vissuto altrettanto; dall’altra, non ha mai abbandonato la scrittura, né
la scrittura lo ha abbandonato”.
Carico di riconoscimenti e di onori e da
tempo ritirato nell’eremitaggio di una casa sul mare, nei suoi ultimi anni
Parra ha pubblicato una personalissima traduzione di Re Lear, una brillante
raccolta di versi nati per sostituire i discorsi delle occasioni ufficiali (Discursos
de sobremesa, 2006), l’imponente catalogo di una sua mostra di poesia
visuale, l’inedito poemetto Temporal, scritto durante la dittatura, e
infine El último apaga la luz (UDP 2018), amplissima selezione di testi
cui ha lavorato sin quasi alla fine. Proprio dalle cinquecento pagine di quella
ricca antologia nasce L’ultimo spegne la
luce (pp. 432, e. 20), uno dei due titoli inaugurali della collana
CapoVersi di Bompiani, curato da Matteo Lefèvre che ha compiuto una scelta
oculata dei componimenti ed è autore sia della traduzione con testo a fronte,
sia della prefazione. Un volume, che, dopo i due brevi “assaggi” proposti da
Medusa nel 2008 e da Einaudi nel 1974, presenta finalmente ai lettori italiani
buona parte della vasta opera di Parra, muovendo dalla raccolta Poesie e antipoesie per disegnare un
percorso poetico segnato da una continua ricerca di rinnovamento.
Nel 1954, all’uscita di Poesie e antipoesie, Parra aveva già
quarant’anni e una vita intensa alle spalle: ragazzo povero cresciuto in una
zona rurale, con un padre maestro di scuola e numerosi fratelli e sorelle tra i
quali spiccava Violeta, cui era legato da un rapporto quasi simbiotico, Nicanor
fu l’unico della famiglia a studiare, laureandosi in matematica e fisica; nel
‘43 una borsa di studio lo portò negli Stati Uniti, e nel ’49 un’altra borsa
gli permise di specializzarsi a Oxford. Uno scienziato che divenne professore
di fisica all’Università di Santiago, insomma, ma che nel 1938 aveva anche
pubblicato Cancionero sin nombre, una raccolta di versi ispirata a
Garcia Lorca e più tardi considerata un “errore di gioventù”. Poi un duplice
silenzio: quello letterario, durato diciassette anni, e quello letterale,
provocato da una misteriosa afasia psicosomatica che per qualche tempo lo privò
della voce. Alla fine, però, il professor Parra riprese a parlare come a
scrivere, preparandosi a sconcertare, incantare o indignare il mondo letterario
cileno con la sua nuova e rivoluzionaria antipoesia. Che è poi semplicemente un’altra
poesia, in perpetuo ascolto delle voci delle strada e delle conversazioni della
gente comune, spiccatamente narrativa, incline alla beffa, al paradosso,
all’esplicito erotismo e alla crudezza: una poesia che vuole sovvertire il linguaggio,
decostruire la forma e mostrare la vita com’è, proponendosi quale “cronaca
dell’uomo moderno”, senza per questo presentarsi come facile, perché
l’apparente semplicità è carica di significati e allusioni, mentre l’umorismo
quasi metafisico semina dubbi e coltiva salutari incertezze.
Rafael Gumucio, nella recente biografia Nicanor
Parra, rey y mendigo, sottolinea che il poeta era di fatto impermeabile
alle grandi narrazioni allora vigenti, ovvero il cristianesimo e il marxismo,
ma oscillava tra il dichiararsi hombre de izquierda e l’essere “contro
tutto”, rifiutando sempre e comunque militanza e dogmatismi. Parra, in realtà,
assegnò a sé stesso il ruolo di “franco tiratore”, l’opposto del “poeta-soldato
che non si separa mai dalla sua mitragliatrice”. Le metafore belliche non
devono stupire: come scrive Binns in Nicanor Parra y la guerrilla literaria,
il nuovo arrivato intendeva stringere d’assedio l’egemonia dei tre grandi “padri”
locali, ovvero Vicente Huidobro (“la poesia del piccolo dio”), Pablo de Rokha (“la
poesia del toro furioso”) e soprattutto Pablo Neruda (“la poesia della vacca
sacra”), con il quale avrebbe ingaggiato un duello trentennale, per non essere
sopraffatto da quella che Harold Bloom chiama “angoscia dell’influenza”,
inevitabile in un poeta più giovane, sovrastato dall’ombra divorante del vate
nazionale e futuro premio Nobel.
Altri erano i nomi che Parra, distruttore
di miti, esibiva quali punti di riferimento. Alcuni (come Lorca e Whitman)
vennero subito rinnegati, altri lo accompagnarono a lungo: Aristofane, Luciano,
Chaucer, Cervantes e perfino Charlie Chaplin... Ma prima di tutto venivano
Kafka (“il mio maestro assoluto”) e la poesia popolare, quella dei puetas
che si esprimevano in musica come sua sorella Violeta e che gli erano familiari
sin dall’infanzia. L’influsso di quei versi antichi e sonori emerge di
continuo, da Sermoni e prediche del
Cristo d’Elqui, uno straordinario poemetto degli anni ’70, alla Cueca
Larga del 1958, esclusa dal volume Bompiani; ma se ne trovano tracce nel
lessico, nei personaggi, nella metrica, a testimoniare non solo il rimpianto
per la cultura contadina da parte di chi aveva optato con decisione per la
metropoli, ma anche l’inclusione dei registri più diversi nell’antipoesia, alla
quale Parra assegnò di continuo forme nuove, per timore che diventasse una
formula.
Nacquero così le Hojas de Parra,
distribuite come volantini prima di essere raccolte in volume, e gli Artefactos
Visuales, cartoline sulle quali erano impresse brevi frasi in cui la scrittura,
già mossa in altri testi da segni e abbreviazioni che sembrano annunciare con
infinito anticipo quelli degli SMS, si intreccia a immagini stilizzate,
attingendo a slogan pubblicitari e politici, al gergo, alle frasi fatte di
radio e TV, alle scritte sui muri, agli argomenti del giorno: una sorta di
twitter ante litteram, nelle mani però di un visionario sarcastico che ricava
dalla cultura di massa acidi lampi di poesia. E poi ecco Graffiti from the Mausoleum of Ezra Pound, versi distribuiti senza
ordine alcuno sulla pagina bianca, trasformata in una sorta di murale.
L’antipoesia, che in L’ultimo spegne la luce è rappresentata nelle sue progressive
sfaccettature e metamorfosi e si dispiega in tutta la sua dirompente modernità,
è dunque arrivata a disintegrare il corpo poetico, inducendo il lettore a
immergersi totalmente in esso per ricrearlo in qualche modo, come il centenario
funambolo avrebbe voluto. Forse per questo Ricardo Piglia ha scritto: “Di tutta
questa gran tradizione poetica, quello che per me sta al di sopra di tutti è
Nicanor Parra: mi sembra un poeta straordinario, uno dei grandi eventi della
poesia”.