Roberto Arlt
Un viaggiatore, non un turista
Nel maggio del 1928, quando cominciò a lavorare
per uno dei primi tabloid argentini, Roberto Arlt aveva ventotto anni, una vita
tempestosa e precaria alle spalle ed era autore del romanzo Il giocattolo rabbioso, destinato a diventar
un classico ma ben poco apprezzato e compreso, all’epoca, dai critici e dai circoli
letterari. Dal direttore di El Mundo, Carlos Muzio Sáenz-Peña, il nuovo collaboratore
ricevette l’incarico di redigere brevi colonne in cui, da flâneur ruvido e sarcastico,
avrebbe disegnato graffianti ritrattini di Buenos Aires e dei suoi abitanti, innestandovi
polemiche riflessioni, denunce, invettive, sberleffi. Scritte in uno stile e un
linguaggio personalissimi, le Aguafuertes porteñas ebbero enorme successo
e Artl conquistò così la popolarità che ancora gli veniva negata da un’opera narrativa
tumultuosa nella forma come nel contenuto, aspra, eversiva, carica di ossessioni,
di violenza e di critica feroce alla borghesia e al potere.
Non c’è da stupirsi se a un certo punto, temendo
l’esaurimento di un filone che aveva fatto raddoppiare le tirature, il direttore
decise di trapiantare altrove le Aguafuertes, facendo di Arlt un inviato
in territorio argentino, poi in Uruguay e in Brasile, e infine in Europa e in Africa.
Fu così che nel febbraio del 1935 lo scrittore approdò in Spagna, per dare inizio
a un viaggio che l’avrebbe portato prima in Andalusia e, dopo una visita in Marocco
(allora colonia spagnola), in Galizia, nelle Asturie, nel Paese basco, a Madrid,
a Toledo e infine a Barcellona, per tornare finalmente in patria nel maggio del
1936, due mesi prima della sollevazione militare contro la Repubblica. El Mundo
potè così pubblicare oltre duecento nuove e avvincenti Aguafuertes, inviate
quasi quotidianamente per via aerea e corredate da lettere e dalle foto scattate
da Arlt, in un bianco e nero che sembra contrapporsi all’abbagliante tavolozza di
colori evocata nelle sue pagine.
Nella seconda metà del 1936, l’autore riunì
parte dei brevi reportages sull’Andalusia e il Marocco nel volume Aguafuertes
españolas, che apparve nel dicembre dello stesso anno e comportò la riorganizzazione
e la modifica delle cronache: alcune vennero escluse o riscritte, altre tagliate
o ampliate, la cronologia fu alterata e lo stile rivisto con cura, per conferire
una solida struttura narrativa a un materiale originariamente destinato al rapido
consumo dei lettori. Adesso queste sorprendenti Acqueforti spagnole (pagine 157, e. 15) sono disponibili per la prima
volta anche nel nostro paese grazie a Casimiro Libri, editore madrileno che pubblica
parte del suo catalogo anche in francese e in italiano; tradotti con notevole perizia
da Alessandro Gianetti, i testi vengono commentati da paesaggi, istantanee, ritratti
catturati dalla Kodak dell’infaticabile inviato e rappresentano una preziosa novità
per i lettori di Arlt o gli appassionati di letteratura di viaggio, oltre che un
magnifico esempio di giornalismo letterario.
Sempre fedele a se stesso, prima di partire
lo scrittore aveva annunciato che andava in Europa per vivere “tra il popolo e con
il popolo”, al contrario degli escribidores borghesi già criticati
in un’Aguafuerte del 1928. Lui, invece, voleva mettere “il naso e la testa
e i piedi e le mani e tutto il corpo” nella realtà della Spagna proletaria, e per
questo si servì dei più comuni (e scomodi) mezzi di trasporto, alloggiò in modeste
pensioni, strinse passeggere amicizie, si fermò ad ascoltare storie di vita e aneddoti
per le strade e nelle osterie. Le viuzze di Cadice, il ribollire cosmopolita di
Tangeri, il biancore assoluto di certi villaggi, le architetture e le feste di un’Andalusia
in cui coglieva un’eco medievale e tracce dell’eredità moresca, lo spinsero tuttavia
a dedicare più spazio del previsto a paesaggi e monumenti, cedendo inevitabilmente
alla curiosità e allo stupore. Non per questo le “Acqueforti spagnole” si possono
definire semplici cartoline illustrate, ed è assai discutibile affermare che riprendano
le formule più convenzionali della letteratura di viaggio o certi stereotipi “spagnoleschi”
fissati nel XIX secolo da Merimée, Gautier o Hugo, perché in realtà Arlt riservò
alla cattedrale di Cadice, alla Settimana Santa di Siviglia o ai labirinti biancazzurri
di Tetuel uno sguardo che diluiva all’estremo la vernice del pittoresco e si insinuava
nelle fessure del colore locale.
L’Alhambra gli appare squallida, il paesetto
di Vejer viene scomposto in candide e spigolose geometrie, della festa sivigliana
scopriamo innanzitutto l’affanno di un’intera città che lavora alla costruzione
di un sontuoso spettacolo collettivo, la scena della taverna marocchina dove gli
uomini danzano sensualmente e si scambiano baci profondi sembra testimoniare un’inquietante
alterità, e tutto questo, insieme alle stordenti elencazioni di quanto viene visto,
annusato e ascoltato, o al frequente confronto fra l’immobile miseria spagnola e
il relativo benessere argentino, induce a pensare che le Acqueforti siano anti-cartoline
in cui si misura la distanza tra la realtà e un’immagine costruita grazie a letture,
musica, dipinti, film, fotografie. Tra le meraviglie di un paesaggio e lo splendore
di un monumento, Arlt si concentra su ciò che si era proposto: dare conto della
situazione di un paese ancora arcaico eppure rivoluzionario, pieno di contraddizioni,
timori e speranze. Gli operai di Cadice che indossano la tuta blu anche di domenica,
senza travestirsi da borghesi come i lavoratori argentini, i pescatori di Barbate
con i quali condivide una dura giornata in barca (“I minatori, i pescatori e i contadini
sono la gloria proletaria della Spagna, la violenza inestinguibile che il fucile
omicida della polizia non potrà mai soffocare”), le torme dei mendicanti granadini,
l’infanzia che lavora undici ore al giorno nelle botteghe di Tangeri, le gitane
“abominevolmente travestite da gitane” a uso dei turisti, e che solo dopo molte
resistenze gli si riveleranno per come sono davvero… Alla lucida indignazione di
Arlt non sfuggono lo sfruttamento dei bambini, le terribili condizioni di lavoro
e soprattutto la condizione delle donne, quasi un leit-motiv delle Acqueforti: braccianti
oppresse dal doppio giogo della Chiesa e del latifondo, sivigliane in “libera
uscita” solo una volta l’anno, oppure, in Marocco, contadine trasformate in bestie
da soma (“all’improvviso penso che la notte in cui una contadina dà alla luce,
e dal suo ventre nasce una figlia, la donna deve piangere amaramente per aver messo
al mondo un’altra bestia”) e ragazze portate a sposarsi in gabbie ben chiuse, come
“prigioniere e martiri”.
Dopo quindici mesi di un viaggio che sembra
accompagnare, tra l’altro, una svolta nella sua opera – dopo il ritorno dall’Europa
non scriverà più romanzi, ma solo teatro e racconti, in alcuni dei quali si percepisce
un sottile scivolamento verso il fantastico –, lo scrittore se ne andrà con tristezza
e raramente, in seguito, evocherà quei giorni, limitandosi ad affermare: “… mi si
spezza il cuore a parlare della Spagna e ricordarla com’era, sapendola così straziata”.
E solo ottant’anni dopo, quando le cronache sulle diverse regioni spagnole verranno
pubblicate nella loro integrità e in un unico volume, sarà davvero possibile rendersi
conto che Arlt, viaggiatore (e mai turista) stregato da un mondo nuovo, è stato
soprattutto un sensibile, attentissimo testimone capace di restituirci da un punto
di vista diverso dal consueto l’intensità del conflitto sociale e politico sul punto
di esplodere e di cancellare, infine, l’utopia repubblicana.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nell’ottobre del 2019.