lunedì 4 novembre 2019

Da leggere: Osvaldo Lamborghini


Osvaldo Lamborghini



Un’allegoria peronista e freudiana 

Un peronista convinto e militante, antiborghese nella vita e nella scrittura, oppure un “populista oligarchico” cinico e in malafede. Un eterosessuale che per provocare usava il rossetto e si firmava “una donna col pene”, o un omosessuale tenacemente occulto. Un rissoso manipolatore gonfio di alcol e psicofarmaci, che secondo un amico come César Aira era invece un gentiluomo dai modi aristocratici. Uno scrittore consapevolmente marginale e clandestino, noncurante della pubblicazione, o un autore angosciato dal difficile accesso al mercato editoriale. In ogni caso e per ammissione unanime, un genio avvolto da una leggenda nera, forse immeritata e artificiosa, che rischia continuamente di divorarne la letteratura.

Al centro di questa selva di contraddizioni, in cui vita e opera si intrecciano inestricabilmente, c’è Osvaldo Lamborghini, nato a Buenos Aires nel 1940 e scomparso nel 1985 a Barcellona, città dove trascorse i suoi ultimi anni in una sorta di reclusione, consacrandosi alla scrittura e a una singolarissima produzione visuale, esibita solo nel 2015 in una grande mostra al Museo di Arte contemporanea della ciudad condal, dall’eloquente titolo El sexo que habla.

Poeta e narratore che in vita pubblicò soltanto tre esili volumetti, a quindici anni dalla morte Lamborghini sembra ancora restìo a lasciarsi canonizzare, nonostante l’edizione postuma dei suoi scritti curata da Aira, l’esistenza di un pubblico di lettori ridotto ma devoto e una vistosa mole di studi critici. Quale seduzione possa esercitare uno scrittore così inafferrabile, ermetico e spiazzante, lo si può ora scoprire grazie alle edizioni Miraggi, che mandano in libreria La pianura degli scherzi (pp. 208, e. 17, a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto), prima traduzione italiana di quattro testi in prosa (della poesia abbiamo avuto un assaggio anni fa, grazie a una breve antologia commentata e tradotta da Massimo Rizzante per le edizioni Scheiwiller ), ovvero Il fiordo e Sebregondi retrocede, apparsi tra il ’69 e il ’73, accoppiati ai più recenti La causa giusta e Le figlie di Hegel.

Il più noto fra tutti è certo Il fiordo, racconto d’esordio che affida a ventidue pagine allucinate la scena di “un’orgia ostetrica” (la definizione è di Alan Pauls), in cui una partoriente viene violentata e quanti le stanno intorno si dedicano a un sesso brutale e allo scempio dei corpi altrui, dipinti come grotteschi e infinitamente malleabili, volumi da modellare, superfici da incidere per rivelarne l’interno. Un’allegoria “peronista e freudiana” che assegna ai nomi una funzione rivelatrice: le iniziali di Carla Greta Terón, la donna in travaglio, formano la sigla CGT (Confederación General del Trabajo), quelle del neonato Atilio Tancredo Vacán rimandano al sindacalista assassinato Augusto Timoteo Vandor, fautore di un peronismo senza il suo caudillo, mentre il nome dell’umiliato Sebas è l’anagramma di bases, cioè dei militanti traditi e ingannati. E se il Loco Rodríguez, sopraffatto e smembrato dai sudditi/seguaci, va identificato con Perón, la lubrica Alcira Fafó impersona Arturo Frondizi, che dà il colpo di grazia al capo tra una pioggia di slogan, peronisti e non.

Lamborghini è già tutto in questo inizio, del quale la sua opera successiva (che, oltre alla poesia e ai racconti, include un romanzo-fiume rimasto incompiuto, Tadeys) costituisce un’evoluzione ben rappresentata in La pianura degli scherzi. Degli anni ’70 è Il bambino proletario, in cui Stroppani, ragazzino povero e vessato dall’istituzione scolastica (la maestra lo chiama Storpiani!, con annesso punto esclamativo) è violato, mutilato e impiccato da tre coetanei borghesi, mossi da puro e dichiarato odio di classe. Alla maturità appartiene invece La causa giusta, narrazione inaspettatamente comica da cui deriva il titolo dell’antologia: in piena guerra delle Malvine l’ingegnere giapponese Tokuro chiama l’Argentina, suo paese di adozione, “la pianura degli scherzi”, un luogo dove l’uso sconsiderato del linguaggio può declinare in atti atroci.

Personaggi simili a sagome stilizzate interpretano i ruoli intercambiabili di vittima e carnefice, uomini dai falli inverosimili – il marchese di Sebregondi ha “un membro sottile di cinquanta centimetri composto da noduli-falangi” – e infine un diluvio di sangue e feci, sono i materiali attorno ai quali si articola una scrittura magistrale e magnetica. Sfiorando a volte l’illeggibile, Lamborghini apre nel suo teatro della violenza improvvisi squarci lirici, intreccia sarcasmo e parodia, mescola i generi sessuali e letterari, ma soprattutto esplora il nesso tra corpo, sessualità e politica, inducendo P, il filosofo Paul B. Preciado, a sottolinearne l’affinità con Sade, poiché entrambi utilizzano “il linguaggio pornografico per descrivere le forti trasformazioni politiche in cui si trovano immersi”.

Preciado include dunque Lamborghini nel proprio discorso biopolitico sul cittadino come “corpo desiderante” e sullo Stato quale “dispositivo camuffato di produzione e costruzione libidinale”, mentre Néstor Perlongher, anche lui sensibile al tema del desiderio, ingloba l’autore di Il bambino proletario nell’universo del neobarroso (termine in cui si fondono barroco e barro, ossia fango), da lui teorizzato; quanto a César Aira, sembra attribuire all’amico genealogie e procedimenti che sembrano destinati, in realtà, a illustrare e legittimare la propria personale scommessa letteraria. E le interpretazioni, com’è ovvio, non finiscono qui: sentieri diversi quanto numerosi affluiscono verso uno scrittore molto studiato ma ancora oggi poco letto, cui Ricardo Strafacce ha dedicato nel 2008 una monumentale e splendida biografia, mappa di un complesso universo esistenziale e letterario.

Se Lamborghini resta un autore unico, senza discepoli né seguaci, per il quale non sempre è possibile stabilire filiazioni e influenze a parte quelle da lui stesso dichiarate (in Le figlie di Hegel ne esplicita alcune, spesso inattese), alcune costanti lo avvicinano ad altri scrittori della scena argentina. La prima è la vena di crudeltà già presente in un testo fondativo come El matadero di Echeverría (il cui fulcro è il tentato stupro di un giovane avversario del generale Rosas) e che trova poi interpreti quali Cambaceres, Arlt, Bioy Casares e Borges con il loro La fiesta del monstruo, fino a Laiseca, Fogwill, al Gracias del giovane Pablo Katchadjian. Una crudeltà che nei testi giovanili dell’autore – come in La condesa sangrienta di Alejandra Pizarnik, scritto nei medesimi anni – acquista una sinistra qualità profetica: la sottomissione e lo strazio dei corpi, l’orgia di sangue, il martirio del “bambino proletario” possono apparire come un riflesso, fattosi arte, della violenza di allora (la Triple A di Lopez Rega, il massacro di Ezeiza, i sequestri), ma soprattutto sembrano annunciare la violenza inarrivabile della dittatura e lo sterminio di un’intera generazione.

La seconda costante è il fil rouge della politica e della militanza, rielaborato però nei termini dell’avanguardia fiorita in Argentina tra gli anni ’60 e il colpo di Stato del ’76, della quale Lamborghini fu uno degli esponenti di spicco (era, tra l’altro, membro fondatore della rivista Literal, avamposto lacaniano in Argentina). Più tardi, quando la politica non sarà che una ferita rimarginata a stento o un profondo e ineliminabile senso di stanchezza, un Lamborghini "con i capelli bianchi" dichiarerà in Le figlie di Hegel la resa su ogni fronte, la vanità di ogni illusione: “… per scoprirlo si passa per guerre e rivoluzioni. Per scoprirlo, senza poter rispondere, perché magari non ci sarà di che rispondere, perché forse: non bisogna rispondere. A parte la pazzia, la malattia, non ce n’è per niente e per nessuno, come si suol dire (l’arte no, non più: da Céline in poi sappiamo che l’arte è opera – sopraffina – di editori, commercianti, produttori di ogni genere e razza)”.

Solo a una battaglia lo scrittore argentino non metterà mai fine, quella con il linguaggio del quale tenterà di infrangere le resistenze e i limiti, forzandolo a contenere tutto: il lunfardo, i neologismi, la gauchesca, lo stile colto, gli arcaismi, una fitta trama di citazioni nascoste e giochi di parole, la ricerca di un nuovo senso e la rinuncia a esso, le distorsioni sintattiche, gli spazi vuoti, una punteggiatura irregolare e sincopata.

Non è un caso, dunque, che La pianura degli scherzi sia introdotto da una lunga nota dei bravissimi Barca e Montalto sulla sfida di rendere in italiano un simile virtuoso della lingua: la loro è una piccola lectio magistralis sull’arte di tradurre l’impossibile, che – oltre a fornire numerose piste di lettura – racconta le ragioni di una scelta audace, quella di restituire una parte di Sebregondi retrocede alla sua originaria forma poetica, volta in prosa solo per l’insistenza dell’editore. Ed ecco che la nuova scansione delle frasi proietta sul testo una luce improvvisa, ce lo avvicina: un esperimento eterodosso ma riuscito, che ci offre nuove e affascinanti possibilità.

  

Una versione ridotta di questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2019