Osvaldo Lamborghini
Un’allegoria peronista e freudiana
Un peronista convinto e militante, antiborghese
nella vita e nella scrittura, oppure un “populista oligarchico” cinico e in malafede.
Un eterosessuale che per provocare usava il rossetto e si firmava “una donna col
pene”, o un omosessuale tenacemente occulto. Un rissoso manipolatore gonfio di alcol
e psicofarmaci, che secondo un amico come César Aira era invece un gentiluomo dai
modi aristocratici. Uno scrittore consapevolmente marginale e clandestino, noncurante
della pubblicazione, o un autore angosciato dal difficile accesso al mercato editoriale.
In ogni caso e per ammissione unanime, un genio avvolto da una leggenda nera, forse
immeritata e artificiosa, che rischia continuamente di divorarne la letteratura.
Al centro di questa selva di contraddizioni,
in cui vita e opera si intrecciano inestricabilmente, c’è Osvaldo Lamborghini, nato
a Buenos Aires nel 1940 e scomparso nel 1985 a Barcellona, città dove trascorse
i suoi ultimi anni in una sorta di reclusione, consacrandosi alla scrittura e a
una singolarissima produzione visuale, esibita solo nel 2015 in una grande mostra
al Museo di Arte contemporanea della ciudad condal, dall’eloquente titolo
El sexo que habla.
Poeta e narratore che in vita pubblicò soltanto
tre esili volumetti, a quindici anni dalla morte Lamborghini sembra ancora restìo
a lasciarsi canonizzare, nonostante l’edizione postuma dei suoi scritti curata da
Aira, l’esistenza di un pubblico di lettori ridotto ma devoto e una vistosa mole
di studi critici. Quale seduzione possa esercitare uno scrittore così inafferrabile,
ermetico e spiazzante, lo si può ora scoprire grazie alle edizioni Miraggi, che
mandano in libreria La pianura degli scherzi
(pp. 208, e. 17, a cura di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto), prima traduzione
italiana di quattro testi in prosa (della poesia abbiamo avuto un assaggio anni
fa, grazie a una breve antologia commentata e tradotta da Massimo Rizzante per le
edizioni Scheiwiller ), ovvero Il fiordo
e Sebregondi retrocede, apparsi tra il
’69 e il ’73, accoppiati ai più recenti La
causa giusta e Le figlie di Hegel.
Il più noto fra tutti è certo Il fiordo, racconto d’esordio che affida
a ventidue pagine allucinate la scena di “un’orgia ostetrica” (la definizione è
di Alan Pauls), in cui una partoriente viene violentata e quanti le stanno intorno
si dedicano a un sesso brutale e allo scempio dei corpi altrui, dipinti come grotteschi
e infinitamente malleabili, volumi da modellare, superfici da incidere per rivelarne
l’interno. Un’allegoria “peronista e freudiana” che assegna ai nomi una funzione
rivelatrice: le iniziali di Carla Greta Terón, la donna in travaglio, formano la
sigla CGT (Confederación General del Trabajo), quelle del neonato Atilio Tancredo
Vacán rimandano al sindacalista assassinato Augusto Timoteo Vandor, fautore di un
peronismo senza il suo caudillo, mentre il nome dell’umiliato Sebas è l’anagramma
di bases, cioè dei militanti traditi e ingannati. E se il Loco Rodríguez,
sopraffatto e smembrato dai sudditi/seguaci, va identificato con Perón, la lubrica
Alcira Fafó impersona Arturo Frondizi, che dà il colpo di grazia al capo tra una
pioggia di slogan, peronisti e non.
Lamborghini è già tutto in questo inizio, del
quale la sua opera successiva (che, oltre alla poesia e ai racconti, include un
romanzo-fiume rimasto incompiuto, Tadeys) costituisce un’evoluzione ben rappresentata
in La pianura degli scherzi. Degli anni
’70 è Il bambino proletario, in cui Stroppani,
ragazzino povero e vessato dall’istituzione scolastica (la maestra lo chiama Storpiani!,
con annesso punto esclamativo) è violato, mutilato e impiccato da tre coetanei borghesi,
mossi da puro e dichiarato odio di classe. Alla maturità appartiene invece La causa giusta, narrazione inaspettatamente
comica da cui deriva il titolo dell’antologia: in piena guerra delle Malvine l’ingegnere
giapponese Tokuro chiama l’Argentina, suo paese di adozione, “la pianura degli scherzi”,
un luogo dove l’uso sconsiderato del linguaggio può declinare in atti atroci.
Personaggi simili a sagome stilizzate interpretano
i ruoli intercambiabili di vittima e carnefice, uomini dai falli inverosimili –
il marchese di Sebregondi ha “un membro sottile di cinquanta centimetri composto
da noduli-falangi” – e infine un diluvio di sangue e feci, sono i materiali attorno
ai quali si articola una scrittura magistrale e magnetica. Sfiorando a volte l’illeggibile,
Lamborghini apre nel suo teatro della violenza improvvisi squarci lirici, intreccia
sarcasmo e parodia, mescola i generi sessuali e letterari, ma soprattutto esplora
il nesso tra corpo, sessualità e politica, inducendo P, il filosofo Paul B. Preciado,
a sottolinearne l’affinità con Sade, poiché entrambi utilizzano “il linguaggio pornografico
per descrivere le forti trasformazioni politiche in cui si trovano immersi”.
Preciado include dunque Lamborghini nel proprio
discorso biopolitico sul cittadino come “corpo desiderante” e sullo Stato quale
“dispositivo camuffato di produzione e costruzione libidinale”, mentre Néstor Perlongher,
anche lui sensibile al tema del desiderio, ingloba l’autore di Il bambino proletario nell’universo del neobarroso
(termine in cui si fondono barroco e barro, ossia fango), da lui teorizzato;
quanto a César Aira, sembra attribuire all’amico genealogie e procedimenti che sembrano
destinati, in realtà, a illustrare e legittimare la propria personale scommessa
letteraria. E le interpretazioni, com’è ovvio, non finiscono qui: sentieri diversi
quanto numerosi affluiscono verso uno scrittore molto studiato ma ancora oggi poco
letto, cui Ricardo Strafacce ha dedicato nel 2008 una monumentale e splendida biografia,
mappa di un complesso universo esistenziale e letterario.
Se Lamborghini resta un autore unico, senza
discepoli né seguaci, per il quale non sempre è possibile stabilire filiazioni e
influenze a parte quelle da lui stesso dichiarate (in Le figlie di Hegel ne esplicita alcune, spesso inattese), alcune costanti
lo avvicinano ad altri scrittori della scena argentina. La prima è la vena di crudeltà
già presente in un testo fondativo come El
matadero di Echeverría (il cui fulcro è il tentato stupro di un giovane avversario
del generale Rosas) e che trova poi interpreti quali Cambaceres, Arlt, Bioy Casares
e Borges con il loro La fiesta del monstruo, fino a Laiseca, Fogwill, al
Gracias del giovane Pablo Katchadjian. Una
crudeltà che nei testi giovanili dell’autore – come in La condesa sangrienta
di Alejandra Pizarnik, scritto nei medesimi anni – acquista una sinistra qualità
profetica: la sottomissione e lo strazio dei corpi, l’orgia di sangue, il martirio
del “bambino proletario” possono apparire come un riflesso, fattosi arte, della
violenza di allora (la Triple A di Lopez Rega, il massacro di Ezeiza, i sequestri),
ma soprattutto sembrano annunciare la violenza inarrivabile della dittatura e lo
sterminio di un’intera generazione.
La seconda costante è il fil
rouge della politica e della militanza, rielaborato però nei termini dell’avanguardia
fiorita in Argentina tra gli anni ’60 e il colpo di Stato del ’76, della quale Lamborghini fu uno degli esponenti di spicco (era, tra l’altro, membro fondatore della
rivista Literal, avamposto lacaniano in Argentina). Più tardi, quando la
politica non sarà che una ferita rimarginata a stento o un profondo e ineliminabile
senso di stanchezza, un Lamborghini "con i capelli bianchi" dichiarerà
in Le figlie di Hegel la resa su ogni
fronte, la vanità di ogni illusione: “… per scoprirlo si passa per guerre e rivoluzioni.
Per scoprirlo, senza poter rispondere, perché magari non ci sarà di che rispondere,
perché forse: non bisogna rispondere. A parte la pazzia, la malattia, non ce n’è
per niente e per nessuno, come si suol dire (l’arte no, non più: da Céline in poi
sappiamo che l’arte è opera – sopraffina – di editori, commercianti, produttori
di ogni genere e razza)”.
Solo a una battaglia lo scrittore argentino
non metterà mai fine, quella con il linguaggio del quale tenterà di infrangere le
resistenze e i limiti, forzandolo a contenere tutto: il lunfardo, i neologismi,
la gauchesca, lo stile colto, gli arcaismi, una fitta trama di citazioni nascoste
e giochi di parole, la ricerca di un nuovo senso e la rinuncia a esso, le distorsioni
sintattiche, gli spazi vuoti, una punteggiatura irregolare e sincopata.
Non è un caso, dunque, che La pianura degli scherzi sia introdotto da
una lunga nota dei bravissimi Barca e Montalto sulla sfida di rendere in italiano
un simile virtuoso della lingua: la loro è una piccola lectio magistralis sull’arte
di tradurre l’impossibile, che – oltre a fornire numerose piste di lettura – racconta
le ragioni di una scelta audace, quella di restituire una parte di Sebregondi retrocede alla sua originaria
forma poetica, volta in prosa solo per l’insistenza dell’editore. Ed ecco che la
nuova scansione delle frasi proietta sul testo una luce improvvisa, ce lo avvicina:
un esperimento eterodosso ma riuscito, che ci offre nuove e affascinanti possibilità.
Una versione ridotta di questo
articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2019