La città dei prodigi
Barcellona: una città chiusa tra il mare e
la cerchia delle montagne, che ha conosciuto “anni di splendore e secoli grigi”
e che, in balìa di ricorrenti forze centrifughe, pare da sempre impegnata nella
costruzione di un’identità collettiva capace di sancire una volta per tutte la sua
differenza. Uno spazio urbano concreto e insieme un luogo dell’immaginario, in apparenza
offerto senza riserve allo sguardo dei rari viaggiatori e alla piaga biblica del
turismo, ma in realtà pieno di segreti, zone buie e antiche contraddizioni, riflessi
in un presente che sembra riassumersi nella profonda lacerazione del tessuto sociale
provocata da nazionalismi opposti e speculari.
Le barricate, i roghi e le rivolte che in questi
ultimi mesi hanno scatenato un’ininterrotta serie di “azioni e reazioni” sono tutt’altro
che estranei, però, alla storia della capitale catalana, che in passato ha conosciuto
ben altre violenze e ben più sanguinose esplosioni di furore; ce lo ricorda ancora
una volta La città dei prodigi (DeA Planeta
pag. 509, e. 18), romanzo del 1986 in cui uno dei più grandi scrittori spagnoli
contemporanei, Eduardo Mendoza, compie una singolare ricostruzione delle vicende
di Barcellona tra il 1888 e il 1929, gli anni delle due Esposizioni Universali che
ne rivoluzionarono l’economia e l’immagine. Vasto e originalissimo affresco che,
insieme a La verità sul caso Savolta (romanzo
d’esordio dell’autore, pubblicato nel 1975), ha segnato l’avvento della postmodernità
nella letteratura spagnola, La città dei prodigi
riappare dopo una lunga assenza nelle librerie italiane, e, riletto nell’eccellente
traduzione di Gina Maneri, conferma la qualità di una fabulazione straordinaria
che elude sia il realismo sociale della posguerra, sia lo sperimentalismo
degli anni ’70.
Partendo da una minuziosa documentazione sulla
quale si innestano innumerevoli storie e personaggi, lo scrittore racconta la storia
di Onofre Bouvila, nato nella Catalogna “selvaggia, cupa e rozza” dell’interno e
approdato appena tredicenne a quella “prospera, luminosa, gioviale e un po’ pacchiana”
della costa. In fuga dalla miseria più estrema, il giovane Onofre sarà distributore
prezzolato di volantini anarchici tra gli operai impegnati nei cantieri della prima
Esposizione, quindi venditore truffaldino di lozioni per capelli, poi delinquente
e capobanda, infine ricchissimo speculatore edilizio, audace pioniere del cinema
muto e deus ex machina dei più loschi affari cittadini, che durante la seconda
Esposizione si inabissa in mare su un’avveniristica macchina volante, entrando definitivamente
nella leggenda.
Bouvila, però, non è l’unico protagonista,
perché la sua vita è indissolubilmente legata a quella della città, “personaggio”
di pari (e forse maggiore) importanza: una Barcellona dipinta all’inizio come provinciale,
quasi dimentica di un passato glorioso e incerta sul proprio futuro, ma presto rivoluzionata
dal progetto di Ildefonso Cerdá, che, ispirandosi al francese Haussmann, demolisce
le vecchie mura, disegna nuovi quartieri, apre ampi e lunghissimi boulevard per
rispondere al desiderio di ordine e modernità di un’industriosa borghesia in perenne
polemica con l’ostile e miope governo centrale, ma pronta a stabilire con esso lucrose
complicità. Al nuovo frenetico sviluppo cittadino corrisponde il crescente potere
di Onofre, che diventa milionario grazie a uno spregiudicato uso della violenza,
si imparenta con una famiglia della buona società (una società profondamente classista
che non lo accetterà mai del tutto) e si serve a proprio vantaggio di ogni occasione,
comprese quelle offerte dal consolidarsi di correnti ideologiche diverse – socialismo,
positivismo, catalanismo, anarchia – e dalla tensione costante tra sfruttatori e
sfruttati, che sfocia in sanguinose rivolte operaie.
Accanto alla Barcellona dei ricchi, dei progetti
modernisti, del noucentisme, vive quella dei bassifondi, del porto, dei miserabili
quartieri di baracche abitati da manovali e operai immigrati, del sordido Barrio
Chino, sorta di cloaca a cielo aperto dove allignano povertà, epidemie e prostituzione:
due volti della città che si riflettono in Onofre, outsider la cui sontuosa facciata
borghese occulta trame delittuose sempre più spericolate, delle quali i commercianti,
gli industriali e le autorità sono di volta in volta vittime e corresponsabili.
Mendoza intreccia fatti reali a episodi di
pura fantasia, si concede sapienti digressioni che inseriscono nuove trame in quella
principale, crea con estrema libertà irresistibili leggende urbane (apparizioni
di santi, statue che scendono dal loro piedistallo, un Gaudí trasformato in accattone
delirante e quasi folle), esibisce citazioni e documenti sia autentici che fasulli,
accosta indimenticabili personaggi del sottobosco criminale a ben più feroci esemplari
delle classi dominanti e mette in scena figure come l’imperatrice Sissi, Pablo Picasso,
Mata Hari o Rasputin, che sfiorano inverosimilmente l’esistenza di Onofre. E soprattutto
pone la Storia al servizio della narrazione, incrociandola con generi diversi: guide
turistiche, manuali scolastici, feuilletons, noir, gotico, avventura, il tutto sostenuto
da quella che si può considerare la struttura portante di gran parte dei romanzi
mendoziani, ovvero il poliziesco.
Oltre alla presenza della letteratura popolare,
però, è percettibile anche l’eco di Cervantes, del romanzo picaresco e delle grandi
narrazioni ottocentesche, da Galdós – fonte ininterrotta di ispirazione – a Dickens,
e tutto viene illuminato dall’ironia, da un umorismo satirico e parodico che a volte
richiama quello surreale di Valle-Inclán e che, insieme a un linguaggio dai molti
registri (la parlata popolana, il gergo criminale e quello giuridico e burocratico,
i catalanismi, il modo di esprimersi tipico dei diversi personaggi), rappresenta
un vero e proprio “marchio di fabbrica” dell’autore. Un prodigioso pastiche, insomma,
una macchina narrativa dal funzionamento perfetto, giustamente diventata un classico
moderno, che racconta il passato ma nel finale ci lascia in qualche modo intuire
il futuro, alludendo a una memoria collettiva in cui gli eventi si amalgamano fino
a “formare una sola cosa, una catena o una china che conduceva ineluttabilmente
alla guerra e all’ecatombe”. Così la sparizione di Onofre, maligno genius loci
che incarna le contraddizioni della città, diventa un presagio funesto per l’intera
Barcellona, pronta ad avviarsi lentamente verso le speranze deluse della Repubblica
e le umiliazioni del franchismo, per rinascere ancora una volta e poi scivolare
in una direzione sconosciuta, fra le turbolenze dell’oggi.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nel novembre del 2019