Brenda Navarro
I bambini scomparsi
“Come tutti gli ospiti mio figlio mi disturbava/
occupando un posto che era il mio posto,/ esistendo fuori orario,/ facendomi spartire
ogni boccone./ Brutta, malata, annoiata,/ lo sentivo crescere a mie spese,/ rubare
il colore al mio sangue, aggiungere/ un peso e un volume clandestini/ al mio modo
di stare sulla terra”.
Il sonetto di Rosario Castellanos, Si parla di Gabriel, sembra tendere un ponte
tra le scrittrici latinoamericane del ‘900 – spesso grandissime e altrettanto spesso
escluse da un canone connotato al maschile –, e una nuova generazione di autrici
sensibili e potenti che stanno rinnovando le letterature di un intero continente,
non senza rivendicare la presenza e la scrittura di quante le hanno precedute.
È difficile, infatti, leggere Case vuote (Giulio Perrone editore, pp. 173,
e. 15, traduzione di Carlotta Aulisio), opera prima della giovane e già bravissima
Brenda Navarro, senza pensare immediatamente a Castellanos, grande scrittrice fin
troppo dimenticata: provenienti da un paese dove la mistica della maternità possiede
ancora oggi l’imponenza opprimente del Monumento alla Madre che incombe sul Jardín
del Arte di Ciudad de México, entrambe sanno restituirci il sentimento ambivalente
e contraddittorio che in molte provano nei confronti della maternità.
Una delle protagoniste del romanzo di Navarro
(in via di traduzione in diversi paesi europei) è appunto una donna che non ha scelto
di essere madre, ma lo è diventata per rispondere alle aspettative della famiglia
e della società. Alla sua voce corrisponde quella opposta di un’altra donna: se
la prima è agiata, con una vita di coppia forse noiosa ma tranquilla, la seconda
si guadagna stentatamente da vivere, mantiene un compagno manesco e soprattutto
è divorata dall’angoscia per la propria sterilità, che la fa sentire un corpo “disabitato”
e inutile (una casa vuota, insomma). Le loro vite si sfiorano solo per un attimo,
quando la madre “borghese” si distrae per un attimo mentre il suo bambino di tre
anni gioca nel parco, e la più povera e disperata – ma anche la più forte e decisa
– lo rapisce per allevarlo come suo e avere finalmente, lei nata da un incesto e
abituata alla violenza quotidiana, una famiglia costruita intorno alla miracolosa
presenza infantile, garante di ogni felicità. Una sparizione, quella di Daniel (ribattezzato
Leonel) che si ripete, facendo perdere le tracce del piccolo anche alla madre “abusiva”
e precipitando le due donne in un inferno senza scampo, tra sensi di colpa, amare
autoaccuse, feroci delusioni e il peso di una sofferenza non rimediabile.
I loro monologhi affannosi, duri, crudeli,
si incrociano nel corso di tutto il romanzo, simili a un grido silenzioso e continuo
che nessuno sembra raccogliere, e testimoniano la già notevole maturità dell’autrice,
abilissima nel ricreare voci dissimili per intonazione e lessico, a partire da psicologie
e da classi sociali diverse. Nel vortice delle confessioni, dei ricordi, dello strazio
senza riparo, si fanno avanti altri personaggi ben disegnati (compagni pazienti
con cui però è impossibile comunicare, uomini che conoscono solo il linguaggio dell’abuso,
suocere e nonne fedeli ai valori del patriarcato), tra i quali spicca la poco amata
Nagore, adottata dai genitori di Daniel: insieme al bambino, chiuso nel silenzio
dell’autismo, l’unica figura luminosa della narrazione, che offre una speranza e
suggerisce l’approdo a un nuovo modo di essere donna.
Quel che appare più interessante, in questo
romanzo scomodo e doloroso, è però la capacità di Navarro di andare ben al di là
di due storie “private” e di legarle a temi collettivi che sembrano formare un costante
sottotesto: la solitudine e la mancanza di reti di sostegno in cui immense maggioranze
femminili sono costrette a vivere la maternità, la tenace definizione di quest’ultima
come principale o unico destino delle donne, il femminicidio e la violenza domestica
(Nagore è figlia di un uxoricida), la precarietà del lavoro e la sempre più profonda
diseguaglianza imposte dal neoliberismo, e infine l’atrocità delle sparizioni che
il Messico si sta lentamente abituando a considerare “normali” e che hanno come
simbolo quella dei quaranta studenti della Escuela Normal Rural Ayotzinapa, nello
stato di Guerrero. Ben settemila, il 17,7 su un totale di molte migliaia di desaparecidos,
sono i bambini messicani svaniti nel nulla, ed è innanzitutto di loro e delle loro
madri mai stanche di cercarli che Navarro vuole parlarci, convinta che attraverso
le storie dei singoli si possano e si debbano raccontare quelle di tutti. E la voce
della madre di Daniel non può che colpirci come un pugno, mentre conclude: “Perché
li chiamiamo scomparsi e non osiamo chiamarli morti? Perché i morti siamo noi che
li cerchiamo, loro saranno vivi per sempre, per sempre”.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nel dicembre del 2019
Sciami letterari – reti di autrici
Brenda Navarro, che il 7 dicembre ha presentato
il suo libro a “Più libri più liberi”, è nata nel 1982 e si laureata in Sociologia
e Relazioni di Genere. Oggi vive a Madrid, e dalla Spagna ha lanciato nel 2016 un
progetto editoriale che prende il nome di Enjambre Literario (ovvero Sciame
Letterario) per diffondere il lavoro di scrittrici e giornaliste latinoamericane,
grazie alla scelta e alla pubblicazione online di inediti e opere prime. Si vanno
così costruendo reti di autrici che, sostenendosi a vicenda, hanno la possibilità
di esprimersi prescindendo dalle dinamiche del mercato editoriale. “Non si tratta
solo di pubblicare libri scritti da donne” ha dichiarato Navarro in un’intervista
a Letras Libres “ma di occupare spazi pubblici in luoghi che al momento risultano
strategici, come il mondo digitale, e impedire che in esso si riproducano le disuguaglianze
che viviamo ogni giorno”.