lunedì 11 ottobre 2021

Da leggere: Mariana Enríquez

 


Mariana Enríquez



Un maelström narrativo 

Algo está pasando (Sta succedendo qualcosa) è il titolo di un articolo apparso nel mese di giugno sulla rivista Lengua, così felicemente approfondito da richiedere la pubblicazione in tre puntate. Leila Guerriero, notissima autrice di crónicas ma anche editor sperimentato, si è servita di questo spazio per esaminare “una costellazione di autrici dalle voci potenti, che provengono dalla stessa zona” – ovvero l’America latina – e della loro crescente fortuna editoriale in patria e all’estero, accompagnata da “un’alluvione di premi internazionali e una tempesta di recensioni elogiative”, e talvolta da un discreto successo di vendite, come quello che ha premiato, per esempio, l’indubbia qualità degli ultimi romanzi di Valeria Luiselli e Guadalupe Nettel, entrambe messicane.

Tra i nomi che ricorrono più spesso tra i molti citati nella minuziosa indagine di Guerriero c’è, inevitabilmente, quello dell’argentina Mariana Enríquez, scrittrice singolarissima (ma anche giornalista culturale, crónista, biografa di Silvina Ocampo) il cui ultimo romanzo, oltre a fare incetta di premi e a venire tradotto in venti paesi, sembra lanciare con fiduciosa noncuranza una sfida a lettori e critici, ammaliati e sopraffatti da un racconto monstre che sfugge a ogni definizione e sembra riassumere e dilatare tutta la produzione precedente dell’autrice, finora nota ai lettori italiani per la magnifica antologia di racconti Le cose che abbiamo perso nel fuoco, pubblicata da Marsilio nel 2017.

Apparso nel 2019 presso Alfaguara, il romanzo in questione arriva adesso in libreria nell’eccellente traduzione di Fabio Cremonesi (Marsilio, pp. 720, e. 22) esibendo un titolo tratto da un verso di Emily Dickinson, La nostra parte di notte, e una trama di solida architettura suddivisa in sei parti che, senza attenersi all’ordine cronologico, si dipana durante la dittatura militare e la presidenza Menem, con ampie incursioni nel XIX secolo, nell’orgiastica swinging London degli anni ’60 e nell’Africa coloniale. Ciascuna parte rimanda alle altre ma possiede caratteristiche proprie, articolata com’è intorno a punti di vista differenti, espressi quasi sempre da una nitida terza persona che a volte cede il passo alla prima (è il caso, per esempio, del ben orchestrato reportage di una giornalista o dei ricordi di Rosario, compagna del protagonista) e connotati da uno stile preciso, da una diversa “coloritura” del terrore e dall’aggancio alla realtà, testimoniato dal richiamo a vicende effettivamente accadute, ma anche dal rapporto stabilito tra il fantastico più estremo e la banalità quotidiana.

La storia dell’Ordine, una setta composta da famiglie dell’oligarchia che perseguono la vita eterna attraverso il culto di un dio oscuro e vorace, procede in parallelo a quella dell’Argentina e se ne nutre, nascondendosi dietro i crimini della dittatura e generando al pari di essa fantasmi senza pace, sparizioni, segreti: fondato sul dolore e la mutilazione, L’Ordine pratica il rapimento di bambini, la tortura di corpi offerti in sacrificio, la semi-schiavitù dei medium che, per chiamare il dio, bruciano in fretta la propria vita. La dittatura e la sua capacità di produrre una memoria atroce quanto inesauribile si infiltrano dunque nel romanzo e sembrano fare da collante alle mille storie e agli innumerevoli personaggi di La nostra parte di notte, a cominciare dai protagonisti Juan (eroe byroniano sospeso tra il Bene e il Male) e suo figlio Gaspar, oppressi da un terribile dono ereditario e incalzati dall’Ordine.

Una lettura del romanzo in chiave politica nasce spontanea, e a rafforzarla affiorano le allusioni a una condizione infantile disperata o all’emarginazione di intere classi sociali imposta dal modello neoliberista. Eppure sarebbe riduttivo decifrare La nostra parte di notte solo in base alla sua capacità di esplorare in modo eterodosso le ferite di una società, anche se la sotterranea presenza del discorso politico risulta in qualche modo naturale, quasi ovvia, nell’opera di chi come Enríquez è nato alla vigilia di un colpo di Stato e ha trascorso l’infanzia alla sua ombra (non è la stessa cosa, sottolinea l’autrice, trovare delle ossa in un’abbazia medioevale o nell’Argentina di oggi). Il romanzo, infatti, è anche un viaggio alla ricerca dell’identità, una saga familiare, una rappresentazione del rapporto padre-figlio, un discorso su tutte le forme del desiderio e su corpi ridotti a scarto e rifiuto, sfruttati, usati, violati, corpi mostruosi e temibili, corpi esausti e malati, metamorfici e in rivolta.

Non va dimenticato, infine, che il romanzo manifesta orgogliosamente la sua appartenenza al genere e che del genere sfrutta con abilità ogni meccanismo, convenzione e sfumatura, mescolando infiniti ed eterogenei riferimenti letterari (da Stephen King a Shirley Jackson, da Henry James a Ballard, da Clive Barker fino a Rimbaud, William Blake, Alejandra Pizarnik ed Ernesto Sabato, per citarne soltanto alcuni) con i rimandi alla pittura romantica o surrealista, la poesia, il rock, i comics, il cinema, la religiosità popolare dei santitos, la magia, la fiaba. Un testo in cui Enríquez ha convogliato gli esiti di un percorso profondamente personale, costruito a partire da una ricerca costante e da sconfinate letture, ma che prescinde da una semplice ars combinatoria: La nostra parte di notte, autentico maelström pronto a inghiottire il lettore, prende da tutti e non ruba a nessuno, perché ogni suggestione, ogni immagine, ogni materiale viene restituito in forma ancora riconoscibile eppure del tutto originale, fino a farci sospettare che quanto ci viene proposto non sia il rinnovamento, ma piuttosto la rifondazione di un genere.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel settembre del 2021