lunedì 20 giugno 2022

Da leggere: Adrián N. Bravi

 


Adrián N. Bravi




Fiumi rossi, verdi foreste 

Nella produzione narrativa di Adrián N. Bravi – nato a Buenos Aires nel 1963 e tornato da più di trent’anni nelle Marche, luogo d’origine dei nonni migranti – ci sono almeno due storie legate all’intemperanza di un fiume: Río Sucre, testo d’esordio in lingua spagnola, e L’inondazione (Nottetempo, 2015), scritto nel vivace italiano che l’autore ha definitivamente adottato. Quasi a chiudere un cerchio, anche il suo decimo romanzo (Verde Eldorado, appena uscito per Nutrimenti, pp. 169, e. 17), è attraversato da fiumi latinoamericani che trascinano con sé infinite leggende e la memoria di vicende sanguinose, mentre, allontanandosi solo in parte dall’ironia amabile e stralunata delle opere precedenti, Bravi affronta allo stesso tempo un viaggio nel passato e nell’immenso bacino del Río de la Plata, formato dal confluire di corsi d’acqua grandi e piccoli.

Proprio come fiumi che si riversano uno nell’altro, anche in Verde Eldorado si fondono correnti diverse, dando vita a una trama di ricchissima intertestualità in cui le suggestioni e le tracce si ricorrono. In trasparenza, ci vengono offerti rimandi alla storiografia della Conquista, ai resoconti degli antichi cronisti, a miti fondativi come quello dei cautivos – i bianchi rapiti dai nativi, un tema che ha connotato le origini della letteratura argentina –, a romanzi di viaggio o d’avventura, nonché a opere eccezionali come L’Arcano di Juan José Saer (La Nuova Frontiera, 2015), che narra con stile inimitabile la storia di Francisco del Puerto, mozzo della prima spedizione spagnola lungo il Río de la Plata, guidata nel 1516 da Juan Díaz de Solís. Ed è dal destino di Francisco, personaggio realmente esistito, che prende spunto il testo di Bravi, in continuo dialogo con quello di Saer dal quale, tuttavia, si discosta profondamente, pur adottando l’escamotage della cronaca scritta in prima persona da un cautivo.

Protagonista è il veneziano Ugolino, sfigurato da un incendio e imbarcato su una nave al comando di Sebastiano Caboto, informato dall’ex mozzo Francisco (a lungo prigioniero degli indigeni che hanno ucciso e divorato i suoi compagni) dell’esistenza di una città tutta d’oro e d’argento a monte del grande fiume, e deciso a raggiungerla nonostante la sua missione ufficiale sia quella di trovare una rotta verso le isole Molucche e le loro “spezierie”. Ugolino è un cronista riluttante, spedito a forza nel Nuovo Mondo da un padre che non vuole più avere sotto gli occhi la sua deformità: eppure saranno proprio mutilazioni e cicatrici a garantirgli la salvezza, quando una bellicosa tribù lo cattura sulle rive del Rio Bermejo insieme ad altri marinai, subito squartati e arrostiti. Agli occhi degli indios, infatti, le cicatrici delle ustioni lo rendono una creatura quasi soprannaturale, toccata e poi risparmiata dagli spiriti del fuoco.

Nel villaggio che lo ha premurosamente adottato, il giovanissimo Ugolino scopre di non doversi più nascondere sotto un cappuccio, ora che il suo volto viene visto come una maschera sacra degna di rispetto collettivo e dell’amore di una ragazza che lui chiamerà Giorgina. Anche se il trauma delle scene di cannibalismo cui ha assistito lo accompagnerà a lungo, l’incontro con la tribù gli regalerà una rinascita e un nuovo nome, finché il maturare di un vero e proprio “meticciato spirituale” lo indurrà a rifiutare il ritorno in patria su una nave carica di schiavi.

In quello che a tratti appare come un autentico romanzo di formazione, Ugolino osserva e riflette su di sé e sulla realtà che lo circonda, riuscendo lentamente a scoprire, comprendere e accettare una nuova vita, mentre il rapporto con l’alterità estrema della tribù è reso più profondo e significativo dalla sua natura di outsider “mostruoso”, che solo grazie allo sguardo sereno degli indigeni trova finalmente un posto nel mondo.

Immaginoso come una delle antiche mappe e stampe che offrivano fantasiose rappresentazioni del nuovo mondo, Verde Eldorado non è da considerare un romanzo storico, non mostra intenzioni etnografiche, non scivola nel pittoresco e neppure si lancia in una romantica difesa del “buon selvaggio”. Avventurandosi nella reinvenzione di un mondo perduto, esibisce invece una coloritura onirica, quasi fiabesca, ma non trascura di opporsi agli stereotipi o di sovvertirli, mentre ci parla coerentemente della possibilità (o forse della necessità) di identità ibride e plurali, e ribadisce, contro la sopraffazione e il possesso, la fondamentale importanza di una costante meraviglia.

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di giugno 2022