domenica 3 luglio 2022

Da leggere: Pilar Quintana

 


Pilar Quintana




Là dove la selva è inesorabile 

Montagne, ricche miniere, innumerevoli corsi d’acqua, foreste che si affacciano sull’oceano, un clima umido e tempestoso connotato da piogge incessanti, una popolazione composta in buona parte dai discendenti dei popoli originari e degli schiavi africani: ecco el Pacífico, la “Colombia dimenticata” del sud-ovest, con i suoi dipartimenti – Cauca e Valle del Cauca – segnati dalla violenza, dalla discriminazione, ma anche da lotte e rivolte che datano dall’epoca coloniale e che non si sono mai fermate (da un paesetto del Cauca, non a caso, viene Francia Márquez, protagonista di grandi battaglie ambientaliste, nuova vicepresidente della Repubblica colombiana e simbolo delle speranze di un territorio in cui si registra il più alto livello di povertà della nazione).

Proprio in un villaggio caucano, avvolto da una natura sovrabbondante e minacciosa, è ambientato La cagna (pp. 110, e. 16,15, traduzione di Pino Cacucci) di Pilar Quintana, che dà inizio al nuovo corso di un marchio glorioso come La Tartaruga, fondato da Laura Lepetit nel 1975, acquistato qualche anno fa da La Nave di Teseo e ora affidato a Claudia Durastanti.

Con questo suo romanzo breve e bellissimo, Quintana (nata a Cali nel 1972 e autrice di cinque romanzi e una raccolta di racconti, che hanno collezionato premi importanti e numerose traduzioni) aggiunge un prezioso tassello alla letteratura sul Pacifico colombiano, poco o nulla esplorata dall’editoria italiana nonostante includa opere notevoli come Las estrellas son negras, capolavoro ormai classico di Arnaldo Palacios, o i più recenti e pregevoli El fin del Océano Pacífico di Tomás González ed Elástico de sombra di Juan Cárdenas. Allontanandosi dal contesto urbano e borghese che caratterizza la sua narrativa, l’autrice torna infatti alla costa del Cauca, dove è vissuta per quasi un decennio in una casa tra la foresta e l’oceano, affacciata su una caletta da attraversare in canoa, o con i piedi nel fango durante la bassa marea: un percorso identico a quello che compie ogni giorno la protagonista di La cagna, Damaris, per raggiungere il villaggio più vicino.

Difficile immaginare un luogo che esprima con più immediatezza la solitudine e l’abbandono collettivi, ma anche quelli più individuali e privati, perché Damaris è stata prima una figlia che il padre non ha riconosciuto e che la madre ha affidato ad altri per poter lavorare in città, poi una bambina che il mare ha privato del suo compagno di giochi, quindi una ragazzina che una pallottola vagante ha reso orfana, e adesso è una donna inquieta e goffa, sposata a un uomo sempre assente. La solitudine più dolorosa, tuttavia, le viene inflitta dal suo stesso corpo, che le nega la possibilità di generare: una delusione cocente, a un tratto alleviata dall’adozione di una cagnetta partorita da poco e rimasta orfana.

I monotoni doveri della quotidianità di Damaris si riorganizzano così intorno a una creatura che dipende completamente da lei, un oggetto d’amore da accudire per sentirsi meno fuori luogo, meno sbagliata. Una volta cresciuta, però, la cagna dà inizio a una serie di fughe e di ritorni, mette al mondo una cucciolata che lascia morire e scatena così un rancore e una furia crescenti, che indurranno la “madre” putativa a un gesto estremo e a una delirante fuga nella selva, da cui forse non farà più ritorno. A inseguirla non è solo il senso di colpa per il simbolico figlicidio appena commesso, ma anche la somma delle amarezze accumulate sin dall’infanzia, e soprattutto la profonda vergogna per la propria incapacità di assolvere alla funzione materna, imposta come primaria e “naturale” dal discorso egemonico. Una pressione che Damaris non riesce a sostenere, e alla quale corrisponde specularmente quella da lei esercitata sulla cagna, figlia surrogata che, invece di restarle accanto, obbedisce al proprio istinto.

Entrambe, ciascuna a suo modo, sembrano interrogarci sul lato oscuro della maternità, ed entrambe esprimono un’inconsapevole ribellione: la cagna rifiuta di lasciarsi umanizzare e afferma la propria animalità attraverso lunghe scorribande e l’abbandono dei cuccioli, mentre la donna, dopo aver tentato per tutta la vita di aderire alle norme del patriarcato, le rinnega con un unico gesto selvaggio e si avvia verso la sola via d’uscita che le appare praticabile, lasciandosi inghiottire dalla fitta vegetazione, “là dove la selva era inesorabile”.

La terza e spietata figura materna è proprio la foresta, personaggio a pieno titolo che assedia e condiziona non soltanto la sorte, ma le relazioni, i pensieri, i gesti, i sogni degli esseri umani, e che insieme al mare e al clima compone una triade divoratrice, pronta a sequestrare e annientare chi si distrae per un istante, come accade al bambino Nicolasito, villeggiante di città rapito da un’onda gigantesca mentre giocava con Damaris: una sorta di una vendetta della natura per l’intrusione dei ricchi vacanzieri che costruiscono case lussuose, abusando sia del paesaggio sia della gente del luogo, manodopera pagata poco o nulla.

Se la maternità, le sue tenebre e le leggi non scritte che continuano a definire una femminilità “utile” e produttiva, sono temi portanti di La cagna (e anche dell’ultimo romanzo di Quintana, Los abismos), risulta inevitabile sottolineare altre chiavi di lettura che avvicinano il romanzo alle ferocissime storie della selva di Horacio Quiroga e ai suoi personaggi sopraffatti da un ambiente naturale ostile e invincibile. Non è difficile, inoltre, cogliere dietro alla semplice e scarna storia di Damaris anche un accenno a quella della regione in cui si svolge: la costante presenza di uomini armati (il padre della protagonista è uno dei tanti soldati che dagli anni ’60 in poi hanno presidiato la zona), il passaggio di mano delle terre, l’enorme divario tra la povertà assoluta degli afro-colombiani e i bianchi che possiedono e sfruttano le risorse locali, la precarietà di esistenze in cui tutto può disfarsi e imputridire da un momento all’altro.

Votata a una densissima brevità e a un realismo nitido, quasi fotografico, Quintana affida a un narratore in terza persona, spassionato e preciso, il racconto di vite rassegnate, di corpi condannati, di una violenza costante; la sua scrittura concreta e disadorna amministra con misura il ritmo e la tensione narrativa, mentre dipana senza sbavature né retorica il filo di una vicenda dal sapore arcaico e universale, che viene spontaneo associare alla tragica Yerma di García Lorca (un rimando sottolineato dalla critica come dall’autrice). Senza mai cedere alla facile tentazione dell’esotismo e del colore locale, la scrittrice colombiana ci restituisce l’immagine di un tropico crudele quanto suggestivo, e, con ammirevole economia di mezzi, dà spazio a silenzi carichi di significato, in un testo che si affida magistralmente al non detto.

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Nel novembre del 2017 quarantadue scrittrici colombiane pubblicarono una sorta di manifesto intitolato Colombia tiene escritoras, in cui protestavano perché l’evento che avrebbe concluso le attività culturali dell’Anno Francia-Colombia (dedicato a un programma di conoscenza reciproca e cooperazione tra i due paesi) prevedeva la partecipazione di dieci autori più o meno noti, ma sempre e comunque uomini, quasi che, nonostante l’esistenza di un consistente numero di nomi femminili importanti, la letteratura colombiana si riducesse a un club esclusivamente maschile. Alla diffusione del manifesto seguirono polemiche animate e non inutili, visto che nel giro di qualche anno la Biblioteca Nacional de Colombia, in collaborazione con alcune case editrici indipendenti, ha dato il via alla Biblioteca de Escritoras Colombianas: diciotto volumi disponibili a partire dal giugno del 2022 in tutte le biblioteche pubbliche e in un’ottantina di librerie, così da recuperare e promuovere opere di autrici nate nel corso degli ultimi tre secoli, che la storia ufficiale della letteratura ha ignorato o relegato ai margini, ma che consentono “di ripensare la letteratura e la condizione delle donne nel panorama colombiano”. E a ideare un progetto così ambizioso e significativo è stata Pilar Quintana, firmataria a suo tempo del manifesto del 2017, che ne ha curato nei minimi dettagli la realizzazione.