Hebe Uhart |
Guidando l’edera
Una donna di cui non conosciamo il
nome, ma che si intuisce solitaria e non più giovane, è intenta a curare le
piante del suo giardino (o forse di un semplice terrazzo sospeso sui tetti e
vicinissimo al cielo) e, come se parlasse tra sé, a soffermarsi sul loro
aspetto e comportamento, scivolando poi in collegamenti e paragoni tra quel
piccolo universo e il genere umano, sfiorando via via argomenti come la morte,
la malvagità, il peso della vita, la pazienza richiesta dalla scrittura e il
godimento che se ne trae, e approdando a «un premio» (una pesca da mordere) e a
una frase finale piena di gioia ritrovata: «...avanti, vita meravigliosa».
Si chiudono così le poche pagine di
Guidando l’edera, quasi una summa esemplare
della narrativa di Hebe Uhart e forse il più bello tra i ventiquattro
racconti riuniti in Un giorno qualunque (La Nuova Frontiera, pp. 192, e.
17, traduzione di Giulia Di Filippo), che segue il romanzo Traslochi e l’antologia
Turismo urbano, apparsi anni fa nelle eccellenti traduzioni di Maria
Nicola per Calabuig. La nuova, ottima selezione ricavata dalla recente edizione
dei Cuentos completos, sottopone di
nuovo ai lettori italiani i testi di una grande scrittrice (nonché maestra
rurale, docente universitaria di filosofia e infine guida di un famoso
laboratorio di scrittura, scomparsa a ottantadue anni nel 2018), che per troppo
tempo ha goduto dell’ambiguo privilegio di venir considerata un «segreto» riservato
a un’esigua cerchia di ammiratori illustri, come Haroldo Conti, Rodolfo
Fogwill, Ricardo Piglia o Elvio Gandolfo.
Nonostante avesse esordito nel 1962
e la sua produzione contasse almeno un centinaio di racconti e mezza dozzina di
romanzi brevi, pubblicati quasi sempre da effimere case editrici indipendenti, solo
all’inizio del nuovo secolo Uhart riuscì a raggiungere un pubblico più vasto e
a influenzare nuove generazioni di scrittori, grazie a una prosa in apparenza
lieve, ma in realtà insondabile e spiazzante, fondata sulla capacità di intuire
la complessità celata in episodi quotidiani o fatti e gesti banali, cui riesce
a conferire un insospettato valore estetico.
Coerente sin dagli inizi, il
progetto narrativo di Uhart si fonda tanto sul saper guardare (Elvio Gandolfo,
nel prologo a una delle sue raccolte di racconti, sostiene che in lei è appunto
il modo di guardare a «produrre uno stile»), quanto sul saper ascoltare, per cogliere
l’incanto del linguaggio altrui e metterne in risalto registri e peculiarità. Un
modo di dire, un proverbio, una deviazione dal linguaggio comune, una frase
ridondante, un errore – citato non per rilevarlo o deriderlo, ma per accoglierne
la poetica bizzarria – diventano così il punto di partenza di vicende minime e
spesso inconcluse, che il suo sguardo partecipe, ma sempre distaccato, rende delicatamente
assurde.
È una lingua viva, orale, pronta a
destabilizzare ogni forma di autorità, quella che viene dispiegata dall’autrice,
pronta a inventare un proprio lessico e a innestarlo sul linguaggio altrui,
senza sopraffarlo o inchiodarlo agli stereotipi del «pittoresco». Non a caso
una delle sue risorse discorsive ricorrenti è il monologo interiore, mentre l’eventuale
narratore in terza persona deve rinunciare all’onniscienza per attenersi a
quella che si potrebbe definire una poetica della percezione, rispettosa del modo
in cui soggetti diversi «sentono» il mondo e si consegnano a esso.
In un’intervista del 2017, Uhart
avverte che per lei il racconto è intimamente legato all’esperienza quotidiana
e deve servirsi di temi, argomenti e soggetti che ne fanno «un’escrescenza
della vita»: serate nei bar, amori confusi, saggi di pianoforte, escursioni,
sedute dal parrucchiere, passeggiate, la cattiva riuscita di una torta, lo
sgranarsi delle ore e degli incontri in una giornata qualunque, gli animali
contemplati allo zoo o incontrati per strada, gli eventi comuni di una comune
famiglia, gli stupori e le perplessità della «piccola gente».
Non è difficile accorgersi, però,
che non siamo davanti a semplici bozzetti neorealisti disseminati di tracce
autobiografiche, ma a narrazioni cui un
sottile straniamento, un impercettibile slittamento del senso e l’insolita
angolazione del punto di vista conferiscono una particolare consistenza e
intensità. Nasce così un’epica minima, in cui, suggerisce Gandolfo, affiorano bagliori
sociologici e perfino una storia sotterranea e appena accennata degli «usi e
costumi» e delle vicende argentine, dall’immigrazione al regime militare, dal peronismo
alla guerra delle Falkland.
I critici, ormai numerosi, che si
sono occupati di Uhart hanno spesso parlato di una sapienza narrativa capace di
creare un effetto di semplicità quasi ingenua e di sfruttare fino in fondo la
risorsa dell’ironia, di un umorismo svagato e mai crudele, anche quando sotto
la superficie del racconto si celano amarezze, disagi e perfino delitti. Tutt’altro
che facile, però, è inserire la sua scrittura in una precisa tradizione, e
difficilissimo è stabilire «parentele» e influenze letterarie.
Qualcuno l’ha accostata alla sua
compatriota Aurora Venturini, autrice che non potrebbe esserle più distante per
piglio e contenuti, ma che ha coltivato come lei una sintassi del tutto
personale, come lei ha ottenuto un meritato riconoscimento solo in tarda età, e,
soprattutto, come lei appare sostanzialmente unica in seno al panorama
argentino e latinoamericano. Si può individuare, inoltre, qualche punto di
contatto col Mario Levrero di Il romanzo luminoso (Calabuig, 2014), con
il quale Uhart ha in comune la convinzione che narrare sia soprattutto
ricordare e che il ricorso all’immaginazione non si renda necessario, perché le
storie sono già lì, davanti ai nostri occhi, anche se non sempre ce ne
accorgiamo.
Più stringente, forse, è il rimando
a Cechov, di cui la scrittrice argentina ha apertamente apprezzato il ruolo di
testimone imparziale attribuito al narratore e il modo di rappresentare i
personaggi au naturel; l’importanza
dell’ascolto e dell’attenta l’osservazione richiamano, invece, la dichiarata
ammirazione per Simone Weil, la cui lettura Uhart usava consigliare agli
aspiranti scrittori e alla quale ha dedicato una brillante conferenza.
A pesare più di ogni altro è però
il riferimento a Felisberto Hernández, lo scrittore cui Uhart si riconosceva
più affine, l’unico che chiamava «il mio maestro». L’apertura a un perpetuo
stupore, all’incertezza e al dubbio, il culto per il dettaglio, la sensazione
che la realtà sia di fatto inconoscibile, le profonde e violente impressioni sensoriali
di un’infanzia magistralmente rappresentata, sono il legame che li unisce: come
Hernández,
anche se in una chiave meno oscura e inquietante, e con una amabilità esclusivamente
sua, Uhart ha saputo rompere i modelli convenzionali del racconto, suggerendo
ancora una volta la possibilità che raccontare significhi anche scostare per un
attimo il sipario dietro il quale si nasconde tutto quanto non sappiamo o non
vogliamo vedere.
Questo articolo è apparso sul quotidiano
il manifesto nel gennaio del 2023