Arlt l’estremista
“Erdosain fissò un attimo gli occhi sul viso romboidale dell’altro; quindi,
sorridendo con aria scherzosa, disse: – Lo sa che lei somiglia a Lenin?
E, prima che l’Astrologo potesse rispondergli, se ne andò”.
“L’Astrologo restò a guardare Erdosain che si allontanava, attese che voltasse
l’angolo ed entrò nel giardino della villa, mormorando: – Sì… ma Lenin sapeva verso
cosa stava andando”.
I due paragrafi, perfettamente consecutivi, sembrano far parte di un unico testo,
e invece no: il primo conclude I sette pazzi di Roberto Arlt, apparso per
la prima volta nel 1929, e il secondo I lanciafiamme, che l’autore pubblicò
due anni dopo, sottolineando nella prefazione – che è anche una sorta di manifesto
sul suo modo di concepire la letteratura come “cross alla mandibola del lettore”
– la continuità tra i due romanzi, così assoluta da poterli in realtà considerare
uno solo, in cui vengono narrate le vicende di un gruppo di personaggi che, guidati
da un leader improbabile come il misterioso Astrologo, si riuniscono in una ancor
più improbabile società segreta decisa a finanziarsi tramite una rete di bordelli
e a scatenare la rivoluzione in un’Argentina inquieta e delusa.
Considerato il capolavoro di Arlt – che aveva già pubblicato nel 1926 Il
giocattolo rabbioso e che concluderà la sua attività di romanziere nel 1932
con il meno riuscito L’amore stregone – questo singolarissimo unicum narrativo
è già apparso nella nostra lingua in edizioni diverse che ne hanno però privilegiato
la prima parte, mentre della seconda si conosceva fino a oggi solo la traduzione
di Luigi Pellisari pubblicata da Bompiani quarant’anni fa. A ricomporre il dittico
e a riportare in libreria, proprio in questi giorni, l’introvabile I lanciafiamme
(pag. 384, e. 15) sono le edizioni Sur, che vanno presentando da qualche anno un
vasto panorama di testi capitali della letteratura latinoamericana, e che nel 2012
avevano già riproposto I sette pazzi: ma nel medesimo catalogo c’è anche
l’antologia arltiana Scrittore fallito (2014), ed è annunciata l’uscita autunnale
di altri racconti, tra i quali il celebre El jorobadito.
Se la scoperta di questo ormai celebratissimo scrittore da parte dei lettori
italiani è stata tardiva – risale infatti ai primi anni ’70 – e limitata a pochi
titoli, sembra dunque che si stia recuperando il tempo perduto, così come è avvenuto
da tempo in Argentina, dove la fortuna dell’Arlt narratore è stata soprattutto postuma
e l’attenzione dell’accademia, che ha prodotto un’enorme mole di studi, è cresciuta
con lentezza, giungendo infine a ribaltare i feroci giudizi con cui fu a suo tempo
accolta l’opera di un autore accusato di “scrivere male” e percepito come estraneo
sia al canone di una letteratura intesa come belles lettres, sia al realismo
sociale dell’Editorial Claridad di calle Boedo, attorno alla quale si riunivano
gli scrittori apertamente di sinistra ai quali Arlt è stato spesso associato. Quanto
sia improprio questo accostamento, però, e quanto vago e contraddittorio il rapporto
che lo scrittore intratteneva con i socialisti e i comunisti del gruppo di Boedo,
lo dimostrano proprio romanzi come I sette pazzi e I lanciafiamme,
là dove confermano, concentrano ed esasperano le tematiche di un autore che giustamente
Beatriz Sarlo definisce non solo eccentrico, ma anche “estremista”, convinto com’era
che fosse possibile sovvertire l’ordine esistente soltanto per mezzo della violenza.
L’universo narrativo di Arlt include ovviamente le sue personali ossessioni
(il denaro, la passione per la tecnica, il disprezzo per l’avida meschinità piccolo-borghese,
il terribile rapporto col padre e quello difficile con le donne, il tentativo di
affrancarsi da una vita misera e oscura attraverso assurde invenzioni scientifiche)
e poi tutto ciò che gli scrittori suoi contemporanei non vedono, o vedono soltanto
attraverso lenti puramente ideologiche, o fingono di non vedere: sottoproletari,
piccoli delinquenti, prostitute, popolane sfinite, ragazzi di strada, insomma il
popolo umiliato, marginale e spesso feroce che sopravvive nei bassifondi del “bosco
di mattoni” di Buenos Aires, metropoli in perpetua espansione, che lo scrittore
conosceva a fondo per via dei lunghi vagabondaggi compiuti in cerca di materiale
per le Aguafuertes porteñas (le cronache pubblicate da Arlt per alcuni
anni sul quotidiano El Mundo) e da lui reinventata attraverso turbolente metafore
e tenebrose immagini geometriche, da più parti messe in relazione con l’espressionismo
tedesco, o con una sorta di cubismo apocalittico.
È questa la società che i protagonisti di I sette pazzi e I lanciafiamme
vorrebbero radere al suolo per costruirne un’altra dai contorni ancora imprecisati,
mescolando alla rinfusa nazionalismo, fascismo, comunismo e perfino brandelli di
occultismo, fino a svuotare le ideologie di qualsiasi senso e significato per sostituirle
con uno spazio di pura eversione, in cui confluiscono la rabbia o la disperazione
di personaggi connotati da soprannomi significativi come il Cercatore d’Oro, il
Ruffiano Malinconico, l’Avvocato, e chiamati a rappresentare grottescamente sia
le diverse voci del discorso pubblico in corso all’epoca, sia il sottofondo cospiratorio
della vita politica argentina di allora, preludio al golpe militare del 1930
e alla deposizione del presidente Yrigoyen. Scritti subito prima del colpo di stato,
i due romanzi acquistano dunque, come lo stesso Arlt mette in evidenza in una postilla
alla terza edizione di I sette pazzi, una dimensione quasi profetica, ma,
poiché adottano il punto di vista di protagonisti persi in un delirio tanto personale
che collettivo, rientrano a fatica nella dimensione crudamente realista di molti
dei racconti arltiani e di Il giocattolo rabbioso, pur essendo pienamente
capaci di interpretare e restituire un preciso contesto storico e ideologico, la
frustrazione delle classi medie e il furore dei bassifondi, l’ossessione del potere,
la crescente sfiducia nella democrazia. E se I sette pazzi racconta, riflettendola
in uno specchio deformante, l’Argentina pre-golpe, I lanciafiamme sembra
piuttosto esprimere, attraverso la progressiva dissoluzione della società segreta
capeggiata dall’Astrologo e una catena di delitti e di suicidi alimentati dalla
disperazione, dalla colpa o da un’insensata crudeltà (e raccontati, a tratti, con
un violento, sarcastico umorismo), la delusione successiva al golpe e un
pessimismo senza rimedio, immancabilmente confermato dagli eventi.
Ma, oltre a captare meglio di chiunque il clima dell’epoca, Arlt compie anche
una prodigiosa operazione formale, attingendo a tutto ciò che la letteratura argentina
ignorava con ostentazione, dal feuilleton alla cronaca nera, dalla divulgazione
scientifica al cinema e al teatro popolare, e incrocia il tutto con le sue vaste
letture di autodidatta, raccogliendo suggestioni e segnali dell’avanguardia europea
e servendosi all’occorrenza di una lingua parlata e di strada che includeva il vocabolario
e la sintassi del lunfardo e del cocoliche (le neolingue degli immigrati),
manifestazione tangibile di una nuova identità in costruzione, di un colossale e
ribollente melting pot. Altrettanto innovativo è stato il suo modo di mettere
in relazione mercato e letteratura, di intuire per primo la natura di una nascente
industria culturale, di rivolgersi a un pubblico che non fosse soltanto quello colto
e borghese di sempre; è anche per questo che la narrativa di Arlt e la scrittura
rude e sincopata dei suoi romanzi sono diventate un vero e proprio ariete da scagliare
contro le convenzioni, per consentire l’irruzione della modernità nella letteratura
argentina, proiettandola verso il futuro. A tutt’oggi, la sua opera mantiene un
carattere di unicità che non permette al canone di inghiottirla e normalizzarla,
come sempre avviene: pur senza “figli” né epigoni, Arlt ha lasciato dietro di sé
tracce profonde e riconoscibili, e la precisa sensazione che la sua presenza sia
ancora quella forte, intensa e inquietante che affiora dalla lettura di I lanciafiamme.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nell’aprile del 2015