Alejandro Zambra |
“Mio padre era un computer, mia madre una macchina da scrivere”
Tre raccolte di poesia, tre romanzi marcatamente caratterizzati da quella brevità
che è una delle cifre stilistiche di tanta letteratura ispanoamericana del passato
e del presente (due di essi, Bonsai e Modi di tornare a casa, sono
apparsi in italiano rispettivamente da Neri Pozza e Mondadori), un bel saggio intitolato
No leer e nato dall’attività di critico e recensore: a tutto questo il quarantenne
Alejandro Zambra, professore di letteratura all’Università Diego Portales e forse
lo scrittore cileno più tradotto all’estero e più celebrato della sua generazione,
ha appena aggiunto i I miei documenti (Sellerio, pag. 216, e. 15; l’ottima
traduzione è di Maria Nicola), in cui sono raccolti undici racconti che, pur sconfinando
a volte nella pura e semplice annotazione diaristica o in una sorta di cronaca fin
troppo evanescente, confermano tanto l’eleganza e la sobrietà di una scrittura ingannevolmente
“naturale”, quanto la chiara impronta autobiografica della narrativa di un autore
definito “di stupefacente talento” dalla The New York Times Book Review.
L’esperienza personale alla cui luce viene riletta quella collettiva, la costruzione
della memoria, lo sguardo perplesso e indagatore dei bambini sugli adulti che nel
Cile degli anni ’80 devono far fronte alla dittatura, l’adolescenza turbata dall’ipocrisia
della transición verso una democrazia ambigua e incompleta, la famiglia come
luogo di menzogne, segreti e silenzi, la ricerca del padre, la complessità del rapporto
di coppia, la vita quotidiana monotona e frustrata di una classe media schiacciata
dal neoliberismo, vicende minime e fragili narrate per sottrazione, con una magistrale
economia di mezzi e mescolando la malinconia all’umorismo, le sfumature liriche
a una lieve crudeltà, e infine la cura per i dettagli, l’inclinazione a narrare
attraverso “fotogrammi” ricomposti e sommati: questi i temi, le caratteristiche,
le costanti dei romanzi di Zambra, che anche in I miei documenti tornano
visibilmente, non senza lasciare spazio, però, a elementi nuovi.
Il primo è la presenza forte della tecnologia, della cultura virtuale, dei computer
in cui vengono travasate, ma anche cancellate e riscritte di continuo, la memoria
e l’esistenza di ciascuno: macchine imperturbabili che arrivano a scandire, in uno
dei racconti, la vita sentimentale di una coppia, e che rimodellano la voce e l’immaginario
di chi ha fatto in tempo a crescere con la carta stampata e a partecipare a una
transizione ben più ampia e planetaria di quella dalla dittatura alla democrazia
(“Mio padre era un computer e mia madre una macchina da scrivere”, si legge nel
primo racconto, quello che dà il titolo all’antologia).
Il secondo è una serie di considerazioni non banali sulla forma, sulla scrittura,
sul linguaggio e sulla sua circolazione, sulle parole e il loro modo di andare per
il mondo: una riflessione che si insinua in diversi racconti e si fonde con le storie
narrate, o come nell’ultimo racconto del volume, diventa storia a propria volta.
Il terzo e il più promettente, infine, è l’avvio di un superamento dell’intreccio
tra autobiografia e finzione che rappresenta il marchio di fabbrica di Zambra (come
del resto, quello di molti scrittori latinoamericani della sua età o di generazioni
successive); il delicatissimo esercizio narrativo che l’autore cileno ha sempre
saputo compiere con equilibrio e sicurezza, qui sembra sul punto di trasformarsi
in qualcosa di meno intimo e autoreferenziale, con esiti tali da suggerire un’interessante
evoluzione futura.
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’ aprile 2015