Martín Adán |
Martín Adán, una vita nascosta
Si chiamava Rafael de la Fuente Benavides ed era nato nel 1908 in un’enorme
casa di calle Corazón de Jesús, nel cuore di Lima, dove visse con una terribile
zia dopo aver perso ancora bambino i genitori e il fratello. La sua era una famiglia
borghese e agiata, la cui lenta rovina gli lasciò solo una piccola rendita sufficiente
per vivere al limite della miseria. Mantenere un impiego qualunque gli era impossibile,
per via delle frequenti crisi depressive e soprattutto dell’alcolismo in cui era
perdutamente sprofondato, uscendone a tratti durante i lunghi ricoveri volontari
in manicomio e in cliniche psichiatriche, ma finendo sempre per precipitarvi di
nuovo. Una vita oscura, la sua, trascorsa per scelta in estrema solitudine e conclusa
nel 1985, mentre a vegliarlo c’era l’amico di sempre Juan Mejía Baca, libraio-editore,
che conosceva meglio di chiunque la sua ritrosia, gli anni trascorsi tra pensioni
miserabili e poveri alberghetti, le ragioni di un isolamento così assoluto e dell’autoesilio
in strutture psichiatriche quali l’ospedale Larco Herrera, la sua unica vera casa,
dove non era un paziente ma piuttosto un ospite libero di andare e venire. E libero,
soprattutto, di scrivere: perché, con il nome di Martín Adán, Rafael de la Fuente
è stato ed è uno dei più grandi poeti latinoamericani del ’900, figura di spicco
del gruppo di scrittori che nel primo ventennio del secolo scorso irruppero nella
scena letteraria peruviana, sospinti da un vento nuovo arrivato dall’Europa, ma
filtrato costantemente attraverso l’esperienza e la sensibilità locale.
A dar loro voce era soprattutto la rivista Amauta, fondata e diretta
da José Carlos Mariátegui, che pubblicò frammenti della prima e unica opera in prosa
di Adán, La Casa de Cartón, scritta durante l’adolescenza e già straordinaria,
una sorta di ritratto in chiave surrealista della società peruviana e della realtà
urbana limeña, in cui la tradizione si scontra e si fonde con i tempi
nuovi (un’edizione di questa piccola obra maestra l’ha proposta la spagnola
Bartataria nel 2009, ma ne esiste anche una versione italiana del 1987, curata da
Antonio Melis per la Liviana). Da allora, a parte un saggio sul barocco in Perù
che è poi la sua tesi di laurea, Adán non scrisse che poesia, riunita in otto antologie
compilate quasi sempre da altri, probabilmente per via della sua estrema riluttanza
a separarsi da testi corretti e riscritti sino all’esasperazione, addirittura per
anni.
Dopo il breve attraversamento della tardiva (e comunque notevolissima) avanguardia
peruviana, che gli permise di sperimentare una libertà, un’irriverenza e un’ironia
pronte a riaffacciarsi anche in seguito, tornò a forme metriche più tradizionali
(anche se qualcuno ha definito “antisonetti” i prodigiosi componimenti raccolti
in Travesía de extramares), senza tralasciare però il verso libero, ricco
di coloriture barocche o espressioniste, malinconicamente ironico, profondo, misterioso,
consegnato a una ricerca non solo formale, ma anche a quella di un senso sfuggente
e perseguito con passione. Oggi più che mai, a trent’anni dalla sua morte (un anniversario
che per fortuna non è passato inosservato, almeno nel suo paese) leggere il poeta
Martín Adán è “un’avventura della conoscenza”,
come testimoniano indagini critiche sempre più approfondite e frequenti,
oltre a qualche opportuna riproposizione della sua opera di cui, però, ancora non
esiste una vera e definitiva edizione critica, capace di riordinare e sistematizzare
i preziosi materiali donati da Mejía Baca alla Pontificia Universidad Católica del
Perú già l’anno dopo la morte del poeta, e che includono manoscritti di ogni genere,
tra i quali taccuini e fogli sciolti (secondo la leggenda che gli è cresciuta intorno,
Adán usava scrivere su scatole di fiammiferi, tovaglioli di carta e simili) con
numerose poesie ancora sconosciute ai suoi lettori. Lettori giovani, soprattutto,
che, come sottolinea uno dei più importanti critici latinoamericani, il peruviano
Julio Ortega, “in questo momento di grande scetticismo, di incertezza circa il valore
della parola in quanto creatrice di oggettività e verità” si rivolgono a lui “in
cerca di quel che manca e che eccede le nostre forze. Adán rappresenta questo bisogno
di una vita più piena, in cui si dia valore al linguaggio creativo. E questo è qualcosa
che induce alla speranza”.
Questo articolo è stato pubblicato su Alfabeta nel maggio del 2015