Osvaldo Lamborghini, trent’anni dopo
Non è durato molto il “rivoluzionario reset” del MACBA, il Museu d’Art Contemporani
di Barcellona, annunciato poco più di un anno fa dal suo direttore Bartomeu Marí,
il cui regno ha conosciuto successi e controversie, nonché la necessità di far fronte
al taglio dei finanziamenti pubblici. E proprio le diminuite risorse economiche
hanno spinto Marí a puntare su un rinnovamento dei contenuti, capace di far circolare
aria nuova nel candido cubo progettato dall’architetto Richard Meyer e piazzato
nel cuore del Raval, il vecchio barrio chino devastato dal turismo, eppure
mai veramente addomesticato. Il nuovo corso era affidato a consulenti di prestigio
quali lo storico dell’arte Valentí Roma e il filosofo Paul B. Preciado (noto, fino
a non molto tempo fa, come Beatriz Preciado, attivista queer e autrice del
Manifiesto Contra-sexual), alla cui iniziativa si devono mostre come la splendida
La pasión segun Carol Rama, o La Bestia y el soberano, coprodotta
con il Württembergischer Kunstverein di Stoccarda, fin troppo chiacchierata per
via di una scultura che ritrae l’ex re Juan Carlos sodomizzato da una minatrice
boliviana e causa di un maldestro tentativo di censura da parte di Marì, delle sue
dimissioni e del licenziamento dei due collaboratori.
Al momento il MACBA è in una situazione di stallo, ma si possono ancora ammirare
i fiori all’occhiello del direttore uscente, primo fra tutti una mostra fortemente
voluta da Valentí Roma e da lui curata: Teatro Proletario de Cámara, una
“prima” assoluta che rivela il lavoro grafico del leggendario scrittore argentino
Osvaldo Lamborghini (in italiano esiste, di suo, solo una breve antologia curata
da Massimo Rizzante, Il ritorno di Hartz e altre poesie, Scheiwiller 2013),
nato a Buenos Aires nel 1940 e morto a quarantacinque anni proprio a Barcellona,
dove si era trasferito nel 1981: oltre cinquecento fogli conservati in una vecchia
valigia dalla vedova Hanna Muck, nell’appartamento del Born in cui il suo compagno
viveva da recluso, lavorando instancabilmente a racconti e poesie, all’imponente
romanzo Tadeys e alle opere oggi disposte sulle pareti di una grande sala
semicircolare, presidiata da una gigantesca foto di Lamborghini semisdraiato sul
suo caotico “laboratorio” domestico. Ovvero il letto di casa, trasformato in un
atelier dove ritagliare, manipolare e commentare con una puntuta calligrafia le
foto delle riviste pornografiche che alla fine degli anni ’70 avevano invaso la
Spagna postfranchista, appositamente comperate da Hanna al mercato domenicale di
Sant Antoni: un gioco inesauribile che, a trent’anni dalla prematura scomparsa di
Lamborghini, un intelligente percorso espositivo dispiega davanti ai visitatori
curiosi di conoscere il complesso universo di un autore oggi fra i più studiati
e discussi (basti vedere la notevole raccolta di saggi Y todo el resto es literatura,
curata nel 2008 da Juan Dabove e Natalia Brizuela per Interzona, o la monumentale
biografia critica di Ricardo Strafacce uscita nello stesso anno presso Mansalva),
nonché considerato una sorta di caposcuola segreto, magistrale ma demoniaco, da
Roberto Bolaño, che fu suo attento lettore e ne parlò in Derivas de la pesada,
un testo del 2002 sulla letteratura argentina, reperibile in italiano nel volume
Tra parentesi (Adelphi 2009).
Per molto tempo quello su Lamborghini era stato un discorso sotterraneo, per
iniziati, tutto interno a una ristretta cerchia di critici e scrittori amici come
César Aira, Héctor Libertella, Tamara Kamenszain, Rodolfo Fogwill, o avversari come
Leopoldo Marechal, che del suo primo libro aveva detto: “È perfetto, come una sfera.
Però una sfera di merda”. E in effetti non è facile trovare, nella storia della
letteratura latinoamericana del ’900, uno scrittore altrettanto “postumo”, che in
vita pubblicò ben poco e quel poco quasi clandestinamente; il suo testo d’esordio,
El fiord, uscito nel 1969 presso un piccolissimo editore, si poteva comperare
solo richiedendolo con una specie di parola d’ordine in un’unica libreria di Buenos
Aires, e sorte non molto diversa ebbero Sebregondi retrocede, del 1973, e
l’antologia di versi Poemas, del 1980. Qualche racconto, qualche articolo
e un certo numero di poesie apparvero inoltre su Literal, la rivista che
Lamborghini aveva fondato nel ’73 con Germán Marín e Luis Gusmán, su Dispositio
1, pubblicazione americana che ospitò i poemi Los Tadeys e Die Verneinung,
e in altre eterogenee sedi; insieme al disegnatore Gustavo Trigo, lo scrittore realizzò
inoltre un bizzaro comic intitolato Marc!, con un eroe libertino e duro a
morire.
Tutto qui: ma bastò, già allora, ad avviluppare Lamborghini nella rete di un
mito che in parte si nutriva della sua vita precaria, senza domicilio fisso né professione
apparente, del suo costante abuso di alcol, del continuo parlare di opere che ancora
non aveva scritto e che avrebbe prodotto, invece, negli anni di Barcellona, riempiendo
a mano almeno tremila pagine che non tentò neppure di pubblicare (una rinuncia simile
a quella di un altro grande “irregolare” argentino, Macedonio Fernández). Solo nel
1988 esce presso le Ediciones del Serba di Barcellona la prima raccolta delle sue
opere, curata da César Aira e seguita qualche anno dopo da una più completa edizione
in due volumi (Sudamericana, 2003) anch’essa a cura di Aira, sulla cui lettura di
Lamborghini alcuni critici – tra gli altri Patricio Pron e Damián Tabarovsky – avanzano
però dei dubbi, considerandola il tentativo di normalizzare un autore così indocile
e così lontano dall’avanguardia riassorbibile e “beneducata” di cui parla Libertella
nel suo saggio Nueva escritura en Latinoamérica. Si deve ad Aira, comunque,
l’inizio della fortuna postuma di uno scrittore non facile i cui libri trasudano
violenza, sesso, sangue, sperma e feci, mescolati alla politica (Lamborghini fu
un acceso militante peronista) fino a produrre allegorie di insostenibile ferocia,
quasi un presagio delle future atrocità della dittatura.
“Che cosa possiamo togliere a Lamborghini, perché non sia più Lamborghini?”
si chiede Damiàn Tabarovsky nel numero che la rivista Quimera dedicò nel
2009 allo scrittore. E la risposta è, per l’appunto, la violenza, il sesso, la politica,
tre elementi che la mostra getta continuamente in faccia al visitatore, ancorandoli
allo humour nero e al gusto per la parodia tipici dell’autore ed evidenziando i
riferimenti a De Sade (anche lui scrittore recluso ed encamado, cioè “a letto”,
sottolinea Preciado), a Lautréamont, Artaud, Bataille, ma anche a una scrittura
della crudeltà tutta argentina che nasce nella prima metà del XIX secolo con El
matadero di Esteban Echeverría.
Il titolo dell’esposizione è lo stesso di un prezioso libro-oggetto pubblicato
nel 2008 in 300 esemplari dall’editore gallego Antxo Rabuñal, che però non utilizzò
tutte le immagini lamborghiniane, e definito da Aira, nell’introduzione al bellissimo
catalogo edito dal MACBA – El sexo que habla, con ottimi e approfonditi interventi
di Alan Pauls, Beatriz Preciado, Valentí Roma, Antonio Jiménez Morato –, “un libro
illustrato, un album di ricordi, un museo portatile”. E al Teatro Proletario
de Cámara è dedicata anche la prima e più vasta sezione della mostra: “pornografia
da edicola manipolata con matite colorate, tempere, acquerelli da scolaro, epigrafi
e commenti poetico-politici, che lo scrittore realizzò di notte e per nessuno,
come un vampiro in pigiama e pantofole”, scrive Alan Pauls. Nella seconda sezione
sono invece raccolti i libretti artigianali, vero esempio di autoedizione in cui
si alternano fotomontaggi, cronaca politica, aforismi, versi, mentre la terza riunisce
disegni e collages in cui le figure dei politici si innestano su quelle pornografiche,
a comporre un aspro ritratto della Spagna di allora e soprattutto della Barcellona
preolimpica, città detestata e corrosivamente sbeffeggiata.
Nelle vetrine, infine, sono racchiusi i reperti più curiosi: libri, veri libri
di argomento vario, detriti di una editoria inutile, scarti dell’agenzia letteraria
in cui Hanna Muck lavorava e che venivano coperti di iscrizioni e commenti, completati
con immagini incollate o disegnate, corredati di false copertine: un riciclaggio
decostruttivo, si potrebbe dire, che rianima corpi cartacei nati morti e, ancora
una volta, li utilizza per confezionare una diario artistico, beffardo e osceno,
della realtà politica e sociale. Altre vetrine contengono parte della biblioteca
personale di Lamborghini e svelano più di una suggestione visiva (la Transavanguardia
italiana, il cinema di Fassbinder, la nuova pittura tedesca, ma anche Goya e il
caricaturista Hogarth), il suo profondo interesse per la psicanalisi e infine le
sue curiosità: in un angolo si affaccia Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi,
in un altro spunta John Cage.
L’ermetica, esasperata rivolta che connota l’opera letteraria, diventa in quella
grafica ancora più furiosa e si fa esplicita, fino a generare un segno artistico
che è anche scrittura e che deforma e riconfigura i corpi, perché, scrive Preciado,
“il testo pornografico è per Lamborghini quello che meglio esprime le mutevole relazioni
tra politica e desiderio, tra corpo e capitale”. E la mostra aiuta allora a capire
come mai il lavoro di un autore la cui estetica pare precorrere i tempi in modo
stupefacente, finisca per suscitare, più che interpretazioni, domande e ancora domande:
“Può uno scrittore essere marginale e centrale allo stesso tempo? Può la periferia
collocarsi al centro e il centro da nessuna parte?” si chiedono gli autori di Y
todo el resto es literatura. Insomma, chi era davvero Osvaldo Lamborghini e
cosa sta cercando di dirci, a trent’anni dalla morte?
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nel maggio del 2015