Juan José Saer |
Juan José Saer, Parigi, 11 giugno 2005
Conferenze, dibattiti, articoli sulle pagine culturali dei più importanti quotidiani
di lingua spagnola: quelli destinati a celebrare il decimo anniversario della scomparsa
di Juan José Saer, nato nel 1937 e morto a Parigi l’11 giugno del 2005; sono omaggi
discreti, in armonia con il “profilo basso” che lo scrittore scelse di tenere nel
corso dei suoi sessantasette anni di vita, assorto com’era nella costruzione di
un’opera imponente e densa, fuori del comune e ormai inserita nel pantheon dei classici.
Chiunque lo conoscesse sapeva del resto che Saer, pur non sottraendosi al confronto
– i suoi giudizi, severissimi e taglienti, sfociavano spesso in dure polemiche –,
non era né voleva essere uno di quegli autori-personaggio la cui onnipresenza sovrasta
la scrittura e al tempo stesso la “promuove”, rendendola adeguatamente consumabile.
E chissà se lo avrebbe divertito (oppure no) scoprire che oggi chi compra nelle
librerie spagnole o alla Feria del Libro di Madrid la nuova edizione del suo superbo
romanzo Glosa – apparso per la prima volta nel 1985 e riproposto proprio
in coincidenza con il decennale – riceve in dono un opuscolo intitolato Universo
Saer: una trentina di pagine con spunti critici sul suo lavoro, organizzati
per temi. Una sorta di piccola guida, insomma, destinata “al profano della materia,
per scoprire con intensità diversi aspetti della scrittura e del pensiero” dell’autore,
sostiene la Editorial Rayo Verde, eccellente casa editrice barcellonese nata
solo tre anni fa, che con questo ricorso a un quasi affettuoso soft marketing
sembra sottintendere una sottile sfiducia nel lettore medio, probabilmente ignaro
dell’esistenza di qualcuno del quale Ricardo Piglia ha detto: “… i suoi testi sono
indimenticabili e dureranno quanto la lingua in cui sono scritti”.
Il fatto è che, con o senza guida alla lettura, la prosa di Saer non è mai stata
per lettori medi, specie se desiderosi di puro e peraltro legittimo intrattenimento,
e magari ancorati allo stereotipo europeo dello scrittore latinoamericano, mai definitivamente
crollato nonostante gli infiniti tentativi di demolizione; per molto tempo questo
scrittore “marginale” per scelta e nel senso più glorioso del termine è stato letto
da un cerchia ristretta di addetti ai lavori, finché, negli anni ottanta, è cominciata
un’ascesa che secondo Beatriz Sarlo ha portato la critica a considerarlo “il più
grande scrittore argentino della seconda metà del XX secolo”, radicalmente estraneo,
in sintonia con Juan Goytisolo, “a quella prosa raffazzonata e piena di frasi fatte
che abbonda nell’universo mediatico dei best seller”. Basterà un opuscolo per incoraggiare
un volenteroso lettore medio a sfogliarne i romanzi? Forse no, ma sarebbe già un
merito fargli presente la possibilità di avvicinarsi a un autore del genere, meravigliosamente
impegnativo e quanto mai seducente (in Italia, dopo alcuni tentativi di Giunti,
Nottetempo ed Einaudi, lo pubblica La Nuova Frontiera, che per ottobre ha in programma
uno dei suoi libri più noti e importanti, El Entenado, ambientato nell’America
della Conquista), i cui romanzi sono, come pochi, capaci di ipnotizzare un lettore
e di risucchiarlo in un universo definito e coerente sin dagli esordi.
A partire dall’antologia En la zona, pubblicata a ventitré anni, la traiettoria
di questo argentino di seconda generazione, figlio di immigrati siriani nato e cresciuto
nella provincia di Santa Fé, è stata caratterizzata da una ricerca estetica rigorosa
che, pur nella sua evidente continuità, azzarda ogni volta nuove scommesse e sperimenta
strade diverse a partire dalla mutevole percezione della realtà, materia sfuggente,
inconoscibile e fluida finché non viene ricreata e “fissata” dalla voce di chi la
racconta, attraverso il lento accumularsi di dettagli e minuzie. In Francia, dove
era arrivato nel 1968 con una borsa di studio di sei mesi e dove rimase per trentacinque
anni, dove ebbe due figli e si sposò per la seconda volta, dove insegnò all’Università
di Rennes e scrisse la maggior parte della sua opera, e dove morì per un tumore
ai polmoni senza poter concludere il poderoso romanzo La Grande, Saer si
era avvicinato all’iperrealismo del nouveau roman, che sembrava rispondere
alla sua esigenza di descrivere il mondo per renderlo finalmente rappresentabile.
I suoi veri maestri, però, erano altri: innanzitutto il gruppo di amici che a Santa
Fé si riunivano attorno a un grande poeta, Juan L. Ortiz, e che si chiamavano Antonio
Di Benedetto, Paco Urondo, Hugo Gola, scrittori dal destino diverso (Urondo, militante
montonero, si suicidò nel ’76 durante uno scontro a fuoco) accomunati dall’origine
provinciale e dall’estraneità al circuito culturale, al potere e al prestigio di
Buenos Aires.
Quell’amicizia, quelle lunghe discussioni, quel confronto su temi letterari
e politici che di volta in volta li univano e li dividevano, furono fondamentali
per Saer, così come lo fu quella che lui chiamava la Zona, il territorio dell’infanzia
e della giovinezza: i suoi protagonisti sono appunto amici che si riaffacciano in
ogni romanzo e nel corso degli anni non smettono di ritrovarsi e parlare, riflettere
ad alta voce, condividere asados e passeggiate all’interno di uno spazio
che, secondo Sarlo, non è un semplice sfondo, ma “una materia poetica altrettanto
centrale della storia che si racconta”. La Zona è, per Saer, il luogo dove tutto
accade, al quale sempre si ritorna (lui lo faceva ogni anno, con un viaggio che
sfiorava appena Buenos Aires) e che soprattutto ha caratteri universali, come la
Yoknapatawpha di Faulkner o la Santa María di Onetti. E proprio le scritture di
Onetti e Faulkner, oltre a quella di Joyce, sono saldi punti di riferimento saeriani,
che confluiscono insieme ad altri materiali (i più diversi, cinema incluso) nella
sua opera narrativa e saggistica, amalgamandosi e incrociandosi in una prosa la
cui forma rivela una passione profonda per la poesia, per il suono, per il ritmo,
e che non si limita a raccontare, ma “pensa”, propone, dibatte, suggerisce, senza
rinunciare a un discreto humour nero.
Lontano dall’Argentina (il che, diceva, gli permetteva di vederla meglio) e
capace di narrarne passato e presente senza mai sfiorare il romanzo storico o il
realismo sociale, Saer è a suo modo anche uno scrittore profondamente politico,
che scrive sì della dittatura militare, del peronismo, dell’immigrazione o della
Conquista, ma lasciando filtrare la Storia attraverso la soggettività dei personaggi
e facendone cosa di tutti, ovunque. Lontano dall’Argentina, si manifesta più che
mai come poeta che narra (non a caso il suo unico e bellissimo libro di poesie è
intitolato El arte de narrar), ma anche come teorico magistrale e appassionato.
Lontano dall’Argentina, è uno tra i pochi della sua generazione, se non l’unico,
a sottrarsi senza sforzo e sin dall’inizio all’ombra soggiogante di Borges e a metterla
in questione da pari a pari, nonché a giudicare il Boom per quello che è stato davvero
(un fenomeno più commerciale che letterario), e a ridimensionare scrittori e opere
sopravvalutati, facendo notare con lucido acume e solidi argomenti che più di un
“re” letterario va in giro nudo. Anche per questo vale la pena di leggerlo, e senza
bisogno di opuscoli.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel giugno del 2015