Juan José Saer |
Juan José Saer, l’arcano
Anche i lettori italiani, grazie alle traduzioni degli ultimi anni, riconoscono
ormai l’argentino Juan José Saer come uno dei più grandi scrittori contemporanei,
ma non tutti, forse, ricordano che la sua prima opera apparsa nella nostra lingua
è L’arcano, riproposta oggi da La Nuova Frontiera (pag. 159, e. 15,50) nella
stessa ottima versione curata nel ’94 per Giunti da un’ispanista sperimentata come
Luisa Pranzetti: un romanzo pubblicato contemporaneamente in spagnolo e francese
oltre un decennio prima, arrivato da noi in ritardo (o forse troppo in anticipo,
vista l’indifferenza con cui venne accolto), e che aveva segnato una svolta nel
percorso di uno scrittore la cui grandezza cominciava appena a essere intuita dalla
critica.
Negli anni ’70, infatti, l’influenza del nouveau roman aveva indotto
Saer – uno dei pochi autori argentini capace di sottrarsi alla soffocante fascinazione
esercitata da Borges – a dilatare la ricerca formale rigorosa e complessa che già
caratterizzava la sua narrativa, fino a produrre antiromanzi come El limonero
real e Glosa: un cammino che, se perseguito fino in fondo, avrebbe potuto
condurlo a un’astrazione prossima all’illeggibilità e al silenzio. L’arcano,
pur non allontanandosi troppo dalle ossessioni dell’autore e dalla sua idea di narrativa
– già ben definite nel romanzo d’esordio, Responso, e ancora di più in quello
della sua prima maturità, Cicatrici (La Nuova Frontiera 2012) –, non esclude
invece le ragioni della trama e sembra volgersi (anche se l’apparente rivisitazione
di generi letterari diversi si rivela un semplice pretesto intertestuale) verso
il romanzo storico e la cronaca di viaggio; non a caso lo spunto veniva, racconta
lo stesso Saer, dalla lettura della Historia argentina di Busaniche, in cui
si parla brevemente di Francisco del Puerto, mozzo su una delle navi spagnole al
comando di Juan Díaz de Solís, che avevano raggiunto e risalito nel 1516 il Río
de la Plata, per cercare un passaggio tra Atlantico e Pacifico. Solís e alcuni marinai
erano scesi a terra, dove gli indigeni li avevano uccisi e divorati, e, mentre la
caravella ripartiva, nessuno si era accorto che il mozzo era scampato al massacro;
gli indios lo avrebbero tenuto con loro per dieci anni, fino all’avvistamento casuale
di una nave spagnola della spedizione Caboto, alla quale l’avrebbero restituito.
“La storia mi sedusse all’istante e decisi di non leggere altro sulla vicenda,
per poter immaginare più liberamente il racconto. L’unica cosa che conservai furono
quelle quattordici righe”, scrive Saer ventisette anni dopo la prima uscita del
romanzo, affermando di aver scelto come “personaggio collettivo” la tribù estinta
e quasi sconosciuta dei Colastiné, per poter creare senza impacci etnologici un
deuteragonista da affiancare al mozzo, voce narrante alla quale non viene mai dato
un nome. E nemmeno i luoghi in cui L’arcano si svolge sono mai nominati,
compreso quello della prigionia, indicato solo come un qualche punto delle Indie
perso nel cosiddetto mar dulce, unica evidente allusione all’immenso estuario
in cui confluiscono i fiumi Uruguay e Paraná (è sulle rive di
quest’ultimo, tra l’altro, che lo scrittore santafesino è
nato e cresciuto, trasformandolo poi nella Zona, sfondo e protagonista di quasi
tutta la sua opera).
Basterebbero questa vaghezza e la rinuncia alla toponomastica o alle date, insieme
alla non linearità del racconto e alla sua adesione ai ritmi capricciosi del ricordo
individuale, a farci intendere che L’arcano non è quello che a prima vista
potrebbe sembrare. Non un “nuovo romanzo storico latinoamericano”, etichetta applicata
da Ángel Rama a Yo, el supremo di Roa Bastos o a Terra nostra di Fuentes,
perché Saer non era interessato a una ricostruzione attendibile degli eventi, tanto
che tutte le sue incursioni nel passato (oltre a L’arcano, La nubes
e La ocasión, considerati, non del tutto a ragione, altrettante cesure nell’insieme
dell’opera saeriana, in cui racconti e romanzi tendono a comporre un unicum
basato sui medesimi luoghi e personaggi) si potrebbero definire antistoriche. Non
un classico romanzo di viaggio e d’avventura, perché non ne possiede l’intenzione
di intrattenere e stupire. Non un romanzo picaresco, anche se il protagonista è
un orfano alla ventura: alla sua vita errante, infatti, vengono dedicate poche e
succinte pagine, che negano spazio all’affacciarsi di un Lazarillo. Non si tratta,
infine, di un memoriale, anche se l’autenticità della memoria e il suo legame con
l’immaginazione sono uno dei punti cardinali del romanzo. Sin dalle prime righe,
L’arcano si rivela piuttosto una perfetta fabula filosofica in cui l’autore
dà forma di racconto a questioni che da sempre lo assillano: la natura del linguaggio
e la sua capacità di modellare l’essere umano, il rapporto tra spazio e tempo, l’esistenza
di un Luogo che contiene tutti gli altri, la precarietà e inafferrabilità del reale, concepito come qualcosa che continuamente
ci sfugge e continuamente deve essere ricostruito e ricreato attraverso la scrittura
(ma a quel punto è già diventato un’altra cosa, che la si chiami memoria o letteratura…).
Diversi sia dai barbari selvaggi cui i contemporanei del protagonista stentavano
a riconoscere il possesso di un’anima, sia da quelli idealizzati nel diciottesimo
secolo, gli indios Colastiné sono sì antropofagi, ma solo una volta all’anno, quando
organizzano un grande banchetto di carne umana e una sbornia collettiva, seguiti
da un’epica orgia che Saer descrive con fredda minuzia; sempre, però, lasciano in
vita il prigioniero che trattano con riguardo e che li vede tornare lentamente a
una vita industriosa e austera; qualcuno, insomma, capace di guardarli dal di fuori,
che funga da legame con un esterno inimmaginabile e perciò temuto, e che, una volta
tornato dai suoi, tramandi quanto ha visto. È questo il compito affidato al mozzo,
la cui indispensabile alterità viene coltivata con cura (gli indios non gli insegnano
la loro lingua fragile e informe, né cercano di farlo diventare uno della tribù)
e sottolineata dall’uso continuo del vocabolo def-ghi, qualcosa di simile
a “testimone”: un estraneo che deve farsi veicolo di immortalità per la tribù, impegnata
in piccoli riti ossessivi destinati a evitare la disintegrazione del mondo conosciuto,
l’unico possibile. E anche l’orgia antropofaga è un rito, il più importante, che
per riaffermare e consolidare l’esistenza di un universo ordinato e riconoscibile
esige un periodico scivolamento nel caos primigenio del desiderio.
L’antico mozzo lo capirà molto tempo dopo, in una patria matrigna dove sarà
via via una meraviglia da esibire, ma contaminata al punto da aver dimenticato la
lingua nativa, poi il pupillo del prete Quesada, che gli insegna a leggere a scrivere
e lo introduce allo studio e alla cultura, quindi un attore girovago che mette in
scena con successo l’esperienza fatta oltremare. Solo dopo aver vissuto lungamente
da entenado (El entenado è il titolo originale del libro: un termine che
indica il figliastro, o anche colui che viene allevato da estranei), il vagabondo
può fermarsi, adottare tre orfani e aprire una florida stamperia, approdando, in
vista della morte, alla quiete e soprattutto a una scrittura “vera”, dopo averne
praticate di false e ingannevoli come il resoconto delle sue avventure raccolto
da padre Quesada, o la commedia sui “selvaggi” nata per compiacere l’immaginario
degli europei e il loro gusto per l’esotico e il meraviglioso.
Sessant’anni dopo, portato a termine il viaggio che lo ha trasformato da entenado
a padre di entenados, rinato più e più volte sino a riconoscersi come narratore,
il protagonista compie infine la missione che gli indios gli hanno affidato. Ed
è così che nasce un racconto fatto di frammenti, in cui gli anni volano, brillano
immagini remote e l’incatenarsi delle riflessioni sovrasta, circonda, illumina i
fatti, simile alla “abbondanza del cielo” che abbacinava il mozzo sulle coste vuote
delle Indie, come per confermare ancora una volta – nota Florencia Abbate, studiosa
acuta dell’opera di Saer – “la funzione redentrice della scrittura del ricordo.