Oswaldo Reynoso |
Un classico vivente
Ottobre, a Lima, è il mese in cui immense processioni attraversano la città,
accompagnate dalla musica della banda, dai fumi dell’incenso e del cibo venduto
a ogni angolo, dai canti e dagli applausi rivolti al Señor de los Milagros, copia su tela di una figura miracolosa che da trecento anni
viene portata a spalla per le strade. L’immagine originale, un Cristo crocifisso
dipinto nel diciassettesimo secolo da uno dei tanti schiavi africani, venne giudicata
miracolosa dopo che il fragile muro di adobe su cui era dipinta resistette
a due terremoti, e oggi il Signore dei Miracoli è il patrono ufficiale dei peruviani
“residenti e migranti”, che accompagna in ogni angolo del mondo i suoi fedeli, tradizionalmente
vestiti di viola cupo e bianco.
È questa lentissima processione, con la sua solennità barocca e le sue coloriture
pagane, a fare insieme da fondale e da cornice a Niente miracoli a ottobre
(pag. 279, e. 16), primo romanzo di Oswaldo Reynoso, un autore ancora sconosciuto
in Europa e che tuttavia, dice il suo giovane collega Enrique Plana, “è il maestro
di ogni scrittore peruviano sotto i cinquant’anni”. Di anni Reynoso ne ha ormai
ottantaquattro (appartiene alla cosiddetta Generazione del ’50, come Vargas Llosa,
Bryce Echenique e Ribeyro, per citare nomi noti anche da noi) e i suoi testi più
famosi e discussi risalgono alla prima metà degli anni ’60; del 1961 è Los Inocentes,
libro d’esordio composto da cinque insuperabili racconti sui ragazzi di strada limeños, mentre Niente miracoli a ottobre, appena tradotto
da Federica Niola per Sur, è apparso per la prima volta nel 1965. Ed entrambi hanno
attirato a suo tempo anatemi critici di insolita violenza: oltre a una fascinazione
per “la morbosità, l’immondizia, la perversione, la pornografia, l’abiezione”, all’autore
veniva rinfacciato il fatto di essere “un marxista rabbioso” che bisognava escludere
dall’insegnamento, il mestiere con cui si è sempre guadagnato da vivere.
Di essere marxista, omosessuale e ateo, Reynoso non aveva mai fatto mistero,
ed era inevitabile che, nel cauto cerchio della letteratura peruviana ufficiale,
l’irruzione dei suoi personaggi consegnati alla disperazione, alla rabbia e alla
rivolta, con la loro intensa corporeità abitata dalla violenza e dal desiderio,
facesse deflagrare un’esagerata indignazione. A difendere la novità e il vigore
di quei libri furono Arguedas, Vargas Llosa, pochi critici avveduti e Miguel Gutiérrez, fondatore con Reynoso del gruppo Narración (un vero specchio dei primi anni ’70 e delle
loro ansie rivoluzionarie). Ma, ben più dei critici, è stato un pubblico giovane,
vasto e fedele a garantire innumerevoli ristampe alle piccole case editrici con
cui Reynoso preferisce pubblicare anche oggi che viene ritenuto un “classico vivente”,
autore di una decina di libri fondamentali tra romanzi, racconti e poesie, apparsi
a lunghi intervalli perché riscritti e corretti all’infinito.
Niente miracoli a ottobre si svolge nell’arco temporale
di quattordici ore, a partire dalla mattina grigia e viola
di una giornata in cui poteri diversi, economico, politico, militare, religioso,
esibiscono la propria forza attraverso la processione, mentre una folla di personaggi
si muove tra il centro cittadino, affollatissimo di corpi che si strusciano, si
affrontano, soccombono, i quartieri appena decorosi della piccola borghesia e le
barriadas proletarie, le baraccopoli di una Lima che in quegli anni affrontava
l’assalto di migliaia di contadini (un inurbamento cui non corrispondevano le necessità
di un vero sviluppo industriale), e che stava per affrontare un nuovo colpo di stato
militare e l’avvento della lotta armata del MRTA e di Sendero Luminoso.
Costruito per capitoli basati sul punto di vista, la voce o il monologo interiore
dei diversi protagonisti, il romanzo procede turbinosamente verso una progressiva
frammentazione, che nel finale diventa estrema e si spezza in singole frasi, a formare
una costellazione di violenze piccole e grandi, enumerate, allineate: cariche della
polizia, lanci di pietre, donne stuprate, pianti silenziosi, bordelli incendiati,
prostitute in parata e l’offerta di un ultimo brandello della sorte di ciascun personaggio.
Ecco i Colmenares, famiglia di classe media ansiosa di mantenere il decoro, ma in
procinto di scivolare nella desolazione delle barriadas senza acqua né luce:
il paziente capofamiglia vaga in cerca di un appartamento che non può permettersi,
la figlia scivola insensibilmente nella prostituzione, la madre sfinita invoca il
Signore dei Miracoli, il figlio minore si lega a una banda di strada e il maggiore,
già vinto, cerca di scuotersi facendo “qualcosa di violento”, sacrilego e imperdonabile.
Ed ecco il ricco don Manuel, obeso, potente e fin troppo grottesco, che ordisce
colpi di stato e compra giovani amanti come Tito, capace però di inattese rivolte.
Ecco Leonardo, il professore di sinistra, tutto discorsi teorici ma ben poco votato
all’azione e probabile alter ego dell’autore, che viene presentato con un filo di
ironia. Soprattutto, ecco la città, simile a un allucinato diorama che l’autore
si china ad osservare, incarnandosi di volta in volta nei suoi personaggi e facendoci
percepire gli odori pesanti, le superfici, i colori, i suoni, quasi a sollecitare
tutti i sensi; un cupo spazio urbano percorso da bande giovanili crudeli ma anche
innocenti, un luogo in cui il sacro si manifesta con esaltazione, ma dove di sacro
non c’è niente (perfino il generale San Martín, il padre della
patria, viene deriso nell’incipit, e le tuniche viola delle giovani fedeli nascondono
civetterie estreme e curve da palpare), tra correnti non troppo
sotterranee di sensualità e di furore, e corpi quasi tangibili: quello molle e caricaturale
di don Manuel, quelli efebici degli adolescenti in vendita, quelli già contaminati
delle ragazzine, quello della donna sconosciuta che, nel corso della processione,
partorisce sul marciapiede.
L’autore sfiora tutti i registri, dalla tragedia alla parodia al pamphlet, legando
ogni cosa grazie alla forza della scrittura: perché Reynoso, qui come in Los
Inocentes, parte dall’oralità – o meglio dal gergo di strada vivo e spavaldo che si è appropriato della lingua dei colonizzatori
e ne ha fatto una creatura mutante e instabile – e la usa per “dare un senso poetico al linguaggio e alla struttura del romanzo” (una vera sfida per qualsiasi traduttore, che può non produrre gli esiti sperati
ma che va comunque affrontata).
Viene, naturalmente, da chiedersi che cosa abbia tanto ritardato la scoperta
di un autore di tale peso non solo in Europa, ma anche in America latina, dove solo
di recente i suoi libri hanno cominciato a diffondersi davvero. C’entrano qualcosa,
forse, una singolarità che rifiuta di essere classificata; la dichiarata estraneità
di questo vecchio enfant terrible dalla lingua tagliente all’establishment
letterario e editoriale; i lunghi silenzi; il volontario isolamento a Pechino, dove
Reynoso è vissuto e ha lavorato per dodici anni, in cerca di utopie impossibili,
e dove è nato il suo romanzo Los Eunucos inmortales. Quale che sia il motivo,
questa prima traduzione italiana ci getta energicamente tra le braccia di
uno scrittore sorprendente, che è andato oltre la troppo semplice etichetta di “realismo
urbano” per recuperare le lezioni dell’avanguardia, e coniugare così “il principio
etico e il principio estetico” che rivendica come fondanti di tutta la sua opera.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel mese di ottobre del 2015