Héctor Ruiz Núñez e María Seoane |
I lapis scrivono ancora
Nel 1983, poco prima che la Giunta militare argentina fosse costretta a indire
libere elezioni, la rivista Tiempo pubblicò un’intervista al generale Camps,
ex Capo della polizia, che non ebbe difficoltà ad ammettere il proprio antisemitismo
e l’ammirazione per Hitler, a giustificare l’uso della tortura come il metodo più
rapido per acquisire informazioni, a rivendicare il robo de bebés (“Era necessario
impedire che quei bambini crescessero con le stesse idee dei loro genitori”) e a
dichiararsi fiero di aver provveduto all’eliminazione fisica di cinquemila sovversivi.
Tra quei “sovversivi” c’erano, e nessuno in Argentina lo ha dimenticato, anche gli
adolescenti sequestrati nel 1976 a La Plata: studenti tra i sedici e i diciotto
anni, quasi tutti membri della UES (la Unión de Estudiantes Secundarios,
vicina ai Montoneros) impegnati in una campagna per il ripristino del boleto
estudiantil, che garantiva notevoli sconti sui trasporti pubblici.
Nel settembre di quell’anno la polizia aveva concluso un’operazione a lungo
preparata – nome in codice: “La notte dei lapis” – portandosi via sei ragazzini
individuati con la complicità delle istituzioni scolastiche; ma altri erano stati
arrestati qualche giorno prima, e altri ancora li seguirono poco dopo, per andare
incontro a una sorte terribile nei campi di detenzione clandestini. Solo quattro
su dieci sarebbero sopravvissuti, gli altri sono ancora oggi desaparecidos.
La loro storia, resa pubblica per la prima volta dal Nunca más, il rapporto
sull’inchiesta della Conadep (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas,
voluta dal presidente Alfonsín), è stata narrata infinite volte: innanzitutto da
Pablo Díaz, sequestrato a diciotto anni e detenuto per quattro, che nel 1985 rese
una dettagliata testimonianza durante il processo alla Giunta Militare; poi nelle
scuole, dove il 16 settembre si celebra una Giornata dei Diritti dello Studente,
e infine attraverso uno straordinario libro-inchiesta, La notte dei lapis,
frutto del lavoro dei giornalisti Héctor Ruiz Núñez e María Seoane, che ha ispirato
anche un film del regista Héctor Olivera. Pubblicato nel 1986 e tradotto in italiano
l’anno dopo da Alessandra Riccio, quel libro viene oggi riproposto dalle edizioni
Portatori d’acqua (pag. 212, e. 14), con una utilissima introduzione della curatrice,
che riepiloga con chiarezza le complesse vicende argentine e non manca di ricordare
come la Ley de la Obediencia Debida y Punto Final e i successivi indulti
abbiano cancellato per anni ogni possibilità di giustizia, e che solo nel 2003,
con l’abolizione della legge da parte di Néstor Kirchner, si è finalmente dato il
via a indagini e processi, molti dei quali ancora in corso.
Costruito con grande abilità, La notte dei lapis si basa su testimonianze di prima mano, sentenze e documenti dai quali emerge un disegno preciso, quello di usare la lotta per il biglietto studentesco come puro pretesto per infliggere a “figli” sovversivi e incorreggibili una punizione esemplarmente atroce, ispirata da una sorta di pedagogia del terrore. Rinchiusi insieme alle detenute politiche incinte (Díaz fu il primo a testimoniare sulla sottrazione di neonati), i ragazzi, nudi, bendati e con una corda al collo, subirono per mesi e mesi torture, botte, fame, stupri, finte fucilazioni, nonostante i documenti polizieschi ammettessero che la loro effettiva pericolosità era minima. E tutto, dalla precoce adesione alla sinistra, fino alla detenzione e ai tentativi di farsi coraggio l’un l’altro chiamandosi da cella a cella e perfino cantando, ci viene raccontato senza ombra di retorica, grazie a un testo dall’avvincente andamento narrativo, sobrio, preciso e inevitabilmente straziante, che la prefazione di Goffredo Fofi – in realtà un’invettiva, amara quanto desolata, contro la sinistra “voluttuosamente suicidatasi”, il neo-populismo, il “sonno drogato” di giovani e giovanissimi – ricollega al nostro presente, senza smettere di interrogarsi sulle generose illusioni e gli errori del passato, e, proprio per questo, dando un senso profondo alla memoria.
Questo articolo è uscito sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2016