Hebe Uhart |
Lo sguardo marziano di Hebe Uhart
Quando Haroldo Conti (narratore argentino sequestrato e fatto sparire dalla
dittatura militare) scrisse nel 1970 il prologo per La gente de la casa rosa,
terza raccolta di racconti di Hebe Uhart, era ormai uno scrittore affermato, autore
di un pregevole romanzo d’esordio, Sudeste, e di altri titoli importanti;
lei, giovane provinciale di ascendenza italo-basca, era invece una sconosciuta che,
dopo la laurea in filosofia, aveva pubblicato il primo libro a proprie spese. Conti,
tuttavia, non esitò a dedicarle una brillante presentazione in cui la accostava
a Carson Mc Cullers e, parlando dello “sguardo marziano” di Uhart, aggiungeva: “La
sua scrittura è così semplice che a tratti sembra infantile. Ma, di semplicità in
semplicità, si penetra in profondità e labirinti dove si può avanzare solo se si
partecipa della magia di questo nuovo mondo. [Uhart] non illumina né completa una
realtà conosciuta. Rivela, o meglio, è lei stessa una realtà unica, diversa”.
E unica, diversa, “marziana”, Hebe Uhart lo è ancora, a ottant’anni suonati
(è nata nel 1936) e dopo aver pubblicato sedici libri presso case editrici via via
più importanti, fino ai Relatos Reunidos editi nel 2011 da Alfaguara, che
le hanno guadagnato una definitiva visibilità. Ma l’attenzione verso questa autrice
volutamente appartata aveva cominciato a crescere già nel 2003, con l’inserimento
dell’antologia Del cielo a casa nel catalogo di Adriana Hidalgo, tanto da
trasformare colei che per molti anni è stata considerata una “scrittrice per scrittori”
in oggetto di adorazione da parte di un pubblico più vasto, pronto a riconoscerne
e amarne la singolarità.
Approdata finalmente in Europa (in Spagna il critico Carlos Pardo l’ha di recente
definita “una delle migliori scrittrici nella nostra lingua”) e arrivata anche in
Italia nel 2015 con la magistrale nouvelle Traslochi, Uhart ci viene di nuovo
proposta dalle edizioni Calabuig attraverso i racconti riuniti in Turismo Urbano
(pag. 133, e. 13; l’eccellente traduzione è di Maria Nicola), tratti da Del cielo
a casa e Turistas, antologie di epoche diverse ma collegate da
una medesima scrittura minimalista, piena di sommesso umorismo e costruita su infiniti
accenni e infinite possibilità di storie estratte dai piccoli fatti quotidiani,
a conferma del fatto che, come la scrittrice non si stanca di sostenere, qualsiasi
cosa “se ben raccontata può trasformarsi in letteratura”. Perché ciò avvenga, però,
prima di tutto bisogna saper guardare “un po’ di più di quanto guarda la gente”,
saper ascoltare per cogliere intonazioni e forme inconsuete, e, infine, sapersi
ancorare all’esperienza, senza per questo finire tra le fauci spalancate del realismo
– pochi scrittori, del resto, sfuggono come Uhart all’etichetta di “realista” o,
se è per questo, a qualsiasi etichetta –, accendendo nel lettore il dubbio che in
realtà l’autore stia parlando d’altro: per esempio dell’alterità infantile, dell’immigrazione,
dell’ascesa sociale, della condizione femminile, della vecchiaia, dell’impossibilità
dell’amore, del razzismo o di filosofia (non per niente l’autrice l’ha insegnata
per anni all’Università di Buenos Aires).
Sarà per questo, forse, che la prosa di Hebe Uhart possiede la stessa levità
ondivaga di una conversazione e somiglia a un album di istantanee, a un flusso di
voci registrate strada facendo, a un mosaico di immagini, parole e personaggi in
apparenza comuni e insignificanti, ma che finiscono per rivelare la straniante bizzarria
di una inesistente normalità. Come nei testi di Felisberto Hernandez, del quale
Uhart si dichiara ammiratrice incondizionata, anche in quelli di Turismo urbano
ritroviamo una passione per il dettaglio che scompone la realtà in minuti frammenti;
e, come in certe Acqueforti di Arlt, assistiamo al dispiegarsi del gusto per la
parlata popolare, l’oralità, i modi di dire, i vocaboli che nel loro percorso dal
centro al margine vengono rimodellati dalla voce di vecchie signore, bambini, zie
matte, immigrati, domestiche, e di coloro che l’autrice, allergica al latente razzismo
delle espressioni politicamente corrette, continua a chiamare indios.
Per chi conosce le sue opere precedenti, inoltre, è proprio qui, nei racconti
di Turismo urbano, che si assiste all’inizio di un passaggio cruciale, quello
che ha visto Uhart transitare dalla narrativa pura alla cronaca di viaggio cui si
è dedicata negli ultimi anni, rinnovando con tocco inconfondibile un genere “cresciuto
con il colonialismo” (la definizione è tratta da una delle sue lezioni di scrittura,
di cui dà conto Liliana Villanueva, alunna fedele, in Las clases de Hebe Uhart)
e privilegiando non le mete più esotiche o remote, ma paesetti ai confini del nulla,
cittadine dell’interno, luoghi di frontiera situati in Argentina e in altre nazioni
latinoamericane, dove lo spagnolo ha risonanze diverse e, percepito da quella sorta
di “orecchio assoluto” che la scrittrice sembra possedere, accresce smisuratamente
il proprio fascino.
Che si tratti del vagare di qualche intellettuale velleitario o ubriaco da una
strada all’altra di Buenos Aires, della gita di un anziano poeta in una città che
vuole rendergli omaggio, dell’arrivo di una conferenziera in uno sperduto centro
di provincia, o del soggiorno in Germania di un gruppo di scrittori latinoamericani
invitati a un congresso, il viaggio è appunto il tema dominante di questi otto racconti,
e si intreccia all’ironica e svagata (e a tratti davvero esilarante, come in La
colletta, Organizzazione di eventi o Il centro culturale) rappresentazione
di un mundillo culturale sempre pronto a esibirsi. L’intellettuale e lo scrittore
viaggianti, che celebrano se stessi volando da un incontro a un festival, ma anche
il cinico “organizzatore di eventi” o il dilettante volenteroso al servizio della
Cultura, vengono osservati e descritti dalla Uhart con spietata eppure indulgente
curiosità, e, a vederli con la lente di ingrandimento che ci viene offerta, diventa
inevitabile parteggiare per quanti, tra loro, si sentono disperatamente fuori posto
tra i colleghi “esperti in convegni”, o impongono senza il minimo scrupolo la propria
eccentrica e oltraggiosa diversità, come il meraviglioso poeta di La colletta,
capace di illuminare brevemente la vita di uno studentello borghese: perché la poesia
(quella poesia che, dice il vecchio don Arturo, “non vende perché non si vende”)
in fin dei conti serve davvero a qualcosa.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’aprile del 2016