Rodrigo Hasbún |
La Bolivia di Rodrigo Hasbún
Nato a Cochabamba da una famiglia di origine palestinese, scrittore nomade e
transnazionale passato dal Cile alla Spagna al Canada agli Stati Uniti, dove oggi
risiede, eppure profondamente legato alla Bolivia, Rodrigo Hasbún appartiene a una generazione di scrittori latinoamericani
che, pur diversissimi, sembrano accomunati dalla capacità o dall’intenzione di leggere
le vicende collettive in chiave personale e intima, ma non elusiva. Tra loro, il
trentacinquenne Hasbún occupa un posto di spicco sin dall’apparizione di Cinco
(2006), primo dei suoi quattro volumi di racconti, e soprattutto di El lugar
del cuerpo, storia di una violenza incestuosa consumata in segreto, che gli
ha guadagnato nel 2007 l’interesse della critica, segnando l’inizio di una notorietà
abbastanza vasta da comportare numerose traduzioni, compresa quella del suo secondo
romanzo, Andarsene, oggi pubblicato dalle edizioni Sur nella versione di
Giulia Zavagna (pag. 120, e. 15). Un’ottima scelta quella di presentare per la prima
volta l’autore ai lettori italiani attraverso la sua opera più intensa e riuscita:
dalle tentazioni autoreferenziali di alcuni racconti d’esordio, Hasbún è infatti approdato a un testo breve e denso, in cui vicende
autentiche e personaggi realmente esistiti vengono usati per costruire una inequivocabile
e avvincente finzione.
Fa da epigrafe al libro un’avvertenza che non deve passare inosservata: “Sebbene
ispirata a persone esistenti e a fatti realmente accaduti, questa è un’opera di
fantasia. In quanto tale, non è, né aspira a essere, un ritratto fedele di nessun
membro della famiglia Ertl, né degli altri personaggi che appaiono nel romanzo”.
Ed è soltanto qui che vediamo citato, un’unica volta e quasi di sfuggita, il cognome
dei protagonisti, primo fra tutti Hans, che era stato il fido cineoperatore di Leni
Riefenstahl (sue le riprese del celebre Olympia), per poi diventare il fotografo
ufficiale delle imprese di Rommel. Hans Ertl sosteneva di non aver mai amato Hitler,
ma, poiché il suo nome era indissolubilmente legato alla propaganda nazista, aveva
preferito lasciare la Germania e rifugiarsi a La Paz con la moglie Aurelia e le
figlie Monika, Heidi e Beatrix, subito prigioniere delle continue partenze paterne
(spedizioni nelle Ande, un documentario sulla prima ascensione del Nanga Parbat,
un altro sulla ricerca della leggendaria Paititi: “Andarsene, era questo che papà
sapeva fare meglio”). Aurelia, paziente e spesso tradita, scomparve nel 1958, e
due anni dopo la famiglia si era già dispersa: Hans comprò un’enorme tenuta dalla
quale non uscì che di rado e dove morì nel 2000, a novantadue anni; Heidi tornò
in Germania, Beatriz rimase in Bolivia e Monika, la primogenita, dopo un matrimonio
fallito divenne compagna di Inti Peredo (tra i pochi sopravvissuti della Guerrilla
de Ñancahuazú, poi assassinato dalla polizia) e venne uccisa ancora giovanissima,
dopo aver giustiziato audacemente il colonnello Quintanilla, che aveva ordinato
di tagliare le mani al cadavere del Che e torturato ferocemente Inti.
Negli anni, molto è stato scritto e detto su Hans, iperattivo e geniale, quanto
su Monika, rivoluzionaria e clandestina: articoli e reportages, libri come La
ragazza che vendicò Che Guevara di Juerg Schreiber (Nutrimenti, 2011), un documentario
dell’antropologo Jürgen Riester in cui l’ottantottenne Ertl appare lucidissimo e
più che mai eccentrico, nell’indescrivibile caos di una estancia fatiscente.
Hasbún, però, è stato il primo a trarre un romanzo dalle sventure
e le avventure delle famiglia Ertl, ma senza fornirci una fedele ricostruzione dei
fatti, incagliarsi nelle secche del romanzo storico (del quale, invece, propone
una vera e propria antitesi), o avventurarsi nella somma di minuti dettagli “d’epoca”;
la sua intenzione sembra piuttosto quella di approfondire, in una storia in cui
tutto è vero e niente lo è, i temi che gli sono più cari: l’esplorazione dell’universo
familiare, tra sconfitte, sopraffazioni, segreti e affetti difficili (non a caso
il titolo originale è Los afectos). E poi l’esilio, lo sradicamento, l’emigrazione,
l’estraneità, il non sapere qual è il proprio posto nel mondo, e infine la malleabilità
della memoria che, tradita e ricreata, diventa letteratura e parla, attraverso il
passato, anche del nostro presente.
In tutto questo si insinua, prendendo le distanze dalla narrativa esplicitamente
politica che è stata a lungo una caratteristica del paesaggio letterario boliviano,
la presenza di un paese osservato e scoperto da occhi inevitabilmente estranei,
che si posano su dittature spietate e disuguaglianze estreme, sul caos urbano di
La Paz, sulla foresta impenetrabile, su animali sconosciuti, sulla miseria e i misteri
degli indios che pregano in aymara. Le voci narranti, però, non appartengono
ad Hans e Monika, intorno ai quali tutto sembra ruotare: a parlare del primo è un
narratore onnisciente, mentre i capitoli dedicati alla seconda si affidano al “tu”
di una seconda persona priva di enfasi. Una sommessa ma fondamentale prima persona
viene assegnata solo a figure in apparenza di secondo piano, ferite in modo irreparabile
dall’assenza: Heidi, Beatrix, Reinhard (cognato di Monika e suo primo amante), che
evocano le incertezze e le difficoltà dell’esilio, gli addii, il viluppo soffocante
dei legami familiari e degli abbandoni.
È il variare continuo del punto di vista e della prospettiva a rendere il romanzo
simile a una sorta di frammentato “album di famiglia” fatto di istantanee colte
al volo, oppure a un abile montaggio cinematografico, ma anche a un percorso dall’adolescenza
alla maturità, capace di stabilire continue corrispondenze tra luoghi, eventi e
viaggio interiore dei personaggi; una struttura ambiziosa, quella messa in piedi
da Hasbún, e sempre sorretta da una scrittura così asciugata e
pulita da apparire ingannevolmente dimessa, posta al servizio di una memoria che
Beatrix, solitaria e vinta, non riesce più a considerare una consolazione. Perché
“non è vero che la memoria è “un posto sicuro”. Anche lì le cose si deformano e
si perdono. Anche lì finiamo per allontanarci dalle persone che più amiamo”.
Questo articolo è uscito sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2016