lunedì 18 luglio 2016

Da leggere: Daniel Alarcón



Daniel Alarcón




I due mondi di Daniel Alarcón

La rivista Granta l’ha inserito anni fa in una delle sue celebri liste, quella dei ventuno giovani romanzieri più promettenti degli Stati Uniti, mentre l’Hay Festival di Bogotà l’ha indicato, insieme a una trentina di scrittori sotto i quarant’anni, come uno dei migliori esponenti della letteratura latinoamericana contemporanea. Una contraddizione che aiuta a rendersi conto di come l’opera di Daniel Alarcón, del quale Einaudi ha appena pubblicato il secondo romanzo (Di notte camminiamo in tondo, pag. 303, e. 20, nella traduzione di Ada Arduini), non sia collocabile al riparo di una delle tante frontiere americane e incarni, a ben vedere, il superamento o la negazione dell’idea stessa di letteratura nazionale. Se in quanto scrittore peruviano appare anomalo, perché scrive in inglese e da un punto di vista curiosamente remoto, composto in parti uguali di estraneità e ansia di appartenenza, rispetto agli autori latinos del Nord America (quelli che in genere vengono riuniti sotto l’etichetta di Hispanic Literature) Alarcón è senz’altro in controtendenza, perché la sua narrativa non si occupa di temi e problemi relativi all’immigrazione, alla costruzione di una nuova identità, al rapporto con il paese di adozione: è invece la terra delle origini a rappresentare il fulcro delle sue ottime raccolte di racconti (Guerra a lume di candela è l’unica tradotta in italiano per le edizioni Terre di Mezzo), di alcune nouvelles e dei due romanzi (il primo, Radio città perduta, è apparso presso Einaudi nel 2011).

Con gli scrittori latinoamericani della sua generazione ha invece alcune cose in comune, come l’avventura della sperimentazione formale e il tentativo (riuscito) di raccontare guerre, dittature e traumatiche vicende collettive riconducendole a una dimensione più intima e individuale.

Lo scrittore aveva solo tre anni quando, nel 1980, i suoi genitori decisero di trasferire la famiglia da Lima a Birmingham, in Alabama, per sottrarsi alle turbolenze di una nazione che, nonostante la fine della dittatura militare, appariva sull’orlo del disastro, e che in poco più di vent’anni avrebbe conosciuto gravi crisi economiche, un nuovo regime autoritario e una guerra civile particolarmente feroce. Cresciuto nell’agiato spazio suburbano di una cittadina americana e laureato in antropologia alla Columbia University, Alarcón probabilmente non si riconoscerebbe nella frase di Elsa Triolet, scrittrice sempre in bilico tra il francese e la madrelingua russa: “Si direbbe una malattia: soffro di bilinguismo”. Se gli è toccato, come a molti, vivere e scrivere tra due lingue, appare ovvio che quella letteraria sia l’inglese, fondamento della sua formazione intellettuale ed estetica, mentre lo spagnolo resta quella degli affetti, tenacemente orale e travasata oggi anche nelle cronache di Radio Ambulante, progetto plurinazionale creato proprio da Alarcón, che lo coordina da San Francisco, dove oggi vive: una radio on line finanziata tramite il crowdfunding e dedicata a storie di vita latinoamericane, raccolte e raccontate da scrittori.

È perciò in un inglese terso, quasi spoglio, libero dalle contaminazioni dello spanglish, che Di notte camminiamo in tondo narra il Perù e lo rende riconoscibile, senza mai dirne il nome, attraverso i quartieri di Lima, i paesaggi andini, i gironi infernali di Lurigancho (carcere sterminato e teatro di massacri, che Alarcón ha visitato in veste di giornalista, e che nel romanzo si chiama Recolectores), i ricordi di una guerra che costringe il presente a misurarsi continuamente con il passato e a riconoscerlo nelle ferite della collettività, nella sofferenza dei singoli, nell’insoddisfatto bisogno di giustizia. E proprio dall’intreccio tra passato e presente nascono la storia di Nelson, studente alle prese con un amore incerto e con la vana speranza di raggiungere il fratello negli USA, e quella di Henry Nuñez, leggendario teatrante d’avanguardia, ormai ridotto a un fantasma che si guadagna da vivere guidando un taxi. Uniti dal desiderio di ripetere la lunga tournée che la compagnia Diciembre (modellata su un gruppo teatrale peruviano realmente esistito) aveva intrapreso tanti anni prima per “portare il teatro al popolo”, rappresentando nelle cittadine e nei villaggi dell’interno una provocatoria pièce dello stesso Nuñez. Nelson e Henry finiranno per sovrapporre e confondere i propri destini, disegnando un cerchio che si richiude su un’identica impossibilità di salvezza, come estranea a ogni salvezza è la società della quale la prigione di Recolectores, dove Henry è stato a lungo rinchiuso, sembra un’estrema e inquietante immagine speculare.

Se Nelson, scelto come nuovo primo attore dello spettacolo, è il volto contraddittorio e confuso di un paese cambiato, pieno di cicatrici e tuttavia in movimento (anche se la direzione è incerta e piena di ombre poco rassicuranti), Henry resta immerso in un passato devastante, una catena di fallimenti e delusioni che però gli ha concesso, negli anni della detenzione, l’amore del ragazzo Rogelio. Attorno a loro, una folla fin troppo fitta di personaggi minori contribuisce a popolare una vicenda complessa, cui fa da epigrafe una frase di Guy Debord: “L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo come agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. È la ragione per cui lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto”.

In una società intesa come immenso palcoscenico, il discorso del potere e il chiacchiericcio servile dei media sono finzioni infami; finzione eroica è quella di Rogelio, che si è assunto il peso dei crimini commessi dal fratello, e finzione amorosa quella della madre di Nelson che, per tener viva la memoria del marito defunto, invia ai giornali lettere firmate col nome di lui. Finge con alterno impegno la misteriosa Ixta, divisa tra due amanti; assorte nell’autoinganno sono la madre e la sorella di Rogelio, per le quali Nelson si presta a incarnare il figlio e fratello redivivo, e nasce da una sinistra messa in scena del caso l’ultima svolta che il romanzo gli riserva.

Su questa rete di rappresentazioni più o meno consapevoli, più o meno fraudolente, e sul senso di apprensione e di attesa che riescono a creare nel lettore, si fonda la costruzione di un’ambiziosa architettura narrativa, composta da innumerevoli flashback, convincenti e a volte fulminei ritratti di luoghi e persone, brevi frammenti destinati a saldarsi almeno in parte in una sorta di mosaico grazie a un giovane giornalista (o meglio cronista, ligio ai procedimenti del nuevo periodismo latinoamericano) che indaga sul destino di Nelson, ma solo per scoprire quanto la verità sia sfuggente e inconoscibile, una storia che varia in continuazione, a seconda della voce narrante e del punto di vista.

E, in questa luce, anche la vaghezza toponomastica del testo acquista un senso: non è più un semplice escamotage per evitare l’esercizio di una faticosa verosimiglianza, ma si propone come un’ultima e indispensabile finzione. Perché in realtà Alarcón ci sta parlando di un Perù non del tutto immaginario eppure immaginato, un territorio mitico, quasi faulkneriano, reinventato da uno sguardo curioso, indagatorio e mai sazio, sempre intento a praticare l’inesauribile gioco del what if, per consentire all’autore – come lui stesso ha più volte confessato – di interrogarsi su quello che avrebbe potuto essere la sua vita se non avesse cambiato mondo, se non ne fosse mai andato.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel luglio del 2016