lunedì 12 settembre 2016

Da leggere: Marta Sanz



Marta Sanz




Marta Sanz, autoritratto senza veli

Scrittrice esigente e attenta allo stile, dall’epoca del suo esordio – avvenuto nel 1995 grazie a uno scopritore di talenti come Constantino Bértolo, editor di lungo corso – la spagnola Marta Sanz ha pubblicato fino a oggi una dozzina di romanzi alquanto diversi uno dall’altro, nei contenuti come nella forma, che, dopo qualche incertezza iniziale, hanno segnato le tappe di una progressiva maturazione e sembrano collegati l’uno all’altro da fili di volta in volta ripresi e riannodati: la frequentazione di generi diversi (l’autrice si è cimentata anche nel poliziesco con due romanzi sofisticati e insoliti, Black black black e Un buon detective non si sposa mai, pubblicati in Italia da Nutrimenti), l’ironia che diventa spesso humor nero, la capacità di cogliere le sfumature del discorso orale, l’interesse per la cultura popolare e per i modelli che trasmette, l’intensa attenzione per l’adolescenza, per le famiglie d’ogni tipo, per l’universo delle donne (alcuni dei suoi libri sembrano magistrali concerti di voci femminili) e per la corporeità, compresa quella più tormentata e disturbante.

A unificare davvero una produzione in apparenza eterogenea è però la qualità etica e politica della narrativa di Marta Sanz, che in alcuni testi emerge come un sottofondo puntuale e costante, ma che in altri può diventare violenta provocazione, come in Susana y los viejos, del 2006, con il suo groviglio di corpi vecchi e malati, di sesso mortifero e di esequie eleganti (la residenza per anziani in cui si svolge la vicenda è, molto opportunamente, anche un’agenzia di pompe funebri), o trasformarsi in satira feroce, come testimonia l’ultimo romanzo, Farandula, vincitore nel 2015 del premio Herralde, che offre un quadro amaro e a tratti esilarante della cultura contemporanea, confinata in una docile irrilevanza, e dell’uso dei social media.

In ogni romanzo, Sanz cerca di “rendere visibile l’ideologia invisibile”, di riportare a galla disvalori così introiettati da non venire più messi in discussione e di sbeffeggiare il “pensiero positivo” che per lei è la maschera ideologica del neoliberismo. Quello che le interessa è proporre una letteratura politica che oggi non è isolata nel contesto letterario spagnolo (basta pensare a un maestro come Rafael Chirbes, scomparso da poco e grande estimatore della Sanz), ma che nel suo caso si distingue per la propensione a un sarcasmo tagliente, per originalità e per una scrittura sorprendente e mutevole; una letteratura disobbediente, che inquieta e che lo fa nel modo più imprevedibile, spiazzando il lettore e ribaltandone le aspettative. E il gioco riesce anche in La lezione di anatomia (in uscita presso Nutrimenti, nella traduzione di Federica Romanò) che tra i testi della Sanz è uno dei più amabili, appena sfiorato dal tocco agro o dal gusto per il grottesco tipici dell’autrice, e illuminato da un umorismo lieve ma per nulla conciliante.

Di questo libro si potrebbe dire che è nato due volte, una vera fenice risorta dalle proprie ceneri, perché Sanz, scrittrice fra le più interessanti e apprezzate della Spagna contemporanea – ma anche poetessa, saggista, cronista di viaggio per il quotidiano El País – lo ha pubblicato nel 2008 con scarso successo di vendite ed eccellenti critiche, per rimetterci mano sei anni dopo e proporlo in una versione ripensata in profondità da un’autrice più matura, intenta a guardarsi indietro come a scrutare dentro di sé (la nuova edizione dell’Editorial Anagrama è del 2014).

“A quasi cinquant’anni, non posso permettermi una narrazione nebulosa della mia infanzia”: forse è questa frase, pronunciata dalla protagonista di uno dei migliori romanzi di Sanz, Daniela Astor y la caja negra (2013), a gettare luce su un’operazione del genere, che ha arricchito il testo di parecchie pagine, limato ammirevolmente lo stile e raggruppato i capitoli in tre parti che corrispondono a infanzia (Recintare il giardino), adolescenza e prima giovinezza (I bachi da seta) e vita adulta (Nudo) della protagonista. Circa l’identità di quest’ultima il lettore viene messo sull’avviso, ancora prima di cominciare, da un’epigrafe di Christophe Donner (“Non dire io quando si tratta di sé stessi non è solo nocivo all’igiene personale dello scrittore; è anche, per il fatto di non esplicitare i vincoli che lo uniscono ai propri personaggi, un modo di tradirli, abbandonarli…”), che lo guida verso una immediata scoperta: la protagonista si chiama – come l’autrice – Marta Sanz, è nata nel 1967 a Madrid, bambina cresciuta nel caos estivo e nell’estraneità linguistica di Benidorm (celebre e mostruoso vacanzificio in provincia di Alicante, dove si parla il molle valencià), adolescente studiosa e curiosa, che una volta laureata in Lettere farà delle parole il suo mestiere, in veste di insegnante, poetessa che scrive in segreto, e finalmente autrice di romanzi.

La seguiamo mentre rievoca la propria decisione infantile di non avere figli, mantenuta fermamente da adulta, perché il suo primo, presunto ricordo (in realtà una rielaborazione dei drammatici racconti familiari) è la terrificante emorragia materna che rischia di renderla orfana subito dopo il parto; eccola poi con sua madre, amata gelosamente, la nonna Juanita, le zie eccentriche o mal sposate, le amiche, tutte riunite, anno dopo anno, in una fitta rete di relazioni. Da un certo punto in avanti, Marta percepisce e affronta a modo proprio il rigetto silenzioso della piccola borghesia provinciale nei confronti della sua famiglia (un padre intellettuale e comunista, una madre che non va in chiesa, fuma e osa indossare il bikini): osserva, registra, immagazzina le contraddizioni degli adulti, senza sapere che un giorno ce le restituirà attraverso la scrittura; esplora le pieghe più nascoste dei rapporti familiari, o rivela con un’ironia deliziosa i segreti propri e altrui (come è fatto un pene, le prime mestruazioni, le paure, le bugie, il dubbio di essere lesbica, ma senza saper bene cosa voglia dire). Negli anni della transizione, la ritroviamo adolescente in giro per Madrid mentre qualsiasi libertà sembra a portata di mano (e invece no, tutto sommato). Le ultime pagine del libro sono dedicate al proprio corpo nudo, descritto con millimetrica esattezza: un quadro esposto nella sala di un museo, oppure una performance alla Marina Abramovic, una figura immobile in attesa di essere studiata e misurata; non una trovata provocatoria, ma un modo per rendere esplicito il legame – o meglio l’identificazione – tra corpo e linguaggio che attraversa tutta l’opera della Sanz, e che lei dichiara di considerare una caratteristica della più intrepida letteratura prodotta dalle donne.

Si tratta di un’autobiografia, dunque, o di uno dei tanti romanzi di formazione che attingono alla memoria personale e la trasfigurano, rendendo incerto e vago il confine tra finzione e realtà? O siamo davanti a una delle autofiction – storie di famiglia, storie d’infanzia e di crescita, di crisi individuali o generazionali – in cui si tuffano così spesso gli scrittori fra i trenta e i quarant’anni? L’impressione è che Marta Sanz abbia imboccato una strada diversa, decidendo di esporre al pubblico il proprio autoritratto iperrealista, complesso e completo, tracciato con infinite e minuscole pennellate, nel tentativo di definirsi, di riconoscersi e farsi riconoscere, ma anche di porre uno specchio davanti al mondo in cui è cresciuta, costringendolo a osservare da vicino e senza distogliere lo sguardo ciò che il tempo ha scritto sul corpo della società spagnola, dall’ultimo decennio franchista ai nostri giorni, in un linguaggio così profondamente inciso da non poter essere cancellato.

Sanz, insomma, non si limita a dirci “ecco come ero e sono, è da qui che vengono i miei libri”, ma si affretta ad aggiungere: “ecco come eravamo, ed è per questo che siamo così”.

E, grazie alla sua straordinaria capacità di rappresentare sentimenti, scoperte e sensazioni di un’infanzia e un’adolescenza con cui non è difficile identificarsi, l’invito a guardarsi allo specchio va inevitabilmente esteso anche a noi.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il manifesto nel settembre 2016